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Agnelli a 20 anni dalla morte: era un grand’uomo, vi racconto perché, una testimonanza, fra terrorismo e minimalia

Agnelli a 20 anni dalla morte: era un grand'uomo, vi racconto perché, una testimonanza, fra terrorismo e minimalia, fra scemenze e luoghi comuni

Agnelli a 20 anni dalla morte: era un grand'uomo, vi racconto perché, una testimonanza, fra terrorismo e minimalia
Agnelli a 20 anni dalla morte: era un grand'uomo, vi racconto perché, una testimonanza, fra terrorismo e minimalia

Agnelli a 20 anni dalla morte: era un grand’uomo, vi racconto perché, una testimonanza, fra terrorismo e minimalia

Giovanni Agnelli II, Gianni per i giornali e gli amici, l’Avvocato per le masse, mori 20 anni fa di questi giorni. Era nato 102 anni fa fra 2 mesi, il 12 marzo del 1921.
Era il nipote di Giovanni Agnelli il fondatore della Fiat. Entrambi senatori, il nonno di nomina regia, lui nominato dal presidente della Repubblica Cossiga.
Fu un grande uomo. Non lo fu tanto e non soltanto per il personaggio interpretato. La partecipazione di popolo al suo funerale fu testimonianza di qualcosa di mistico.
Lo fu per il ruolo giocato come nocchiere di una Italia nave in gran tempesta quasi come ai tempi di Dante, in un tempo in cui uscivi di casa senza sapere se il supremo tribunale del terrorismo ti ci avrebbe fatto tornare. Nessuno era esente, non solo i padroni ma i moltissimi annoverati come loro servi. Nessuno che non vivesse nel Nord d’Italia in quegli anni può immaginarlo.
Lo fu anche per le piccole cose.
Ne sono testimone. Un giorno del 1979, in pieno caos di conflittualità sindacale e terrorismo, era stato ucciso in quei giorni Carlo Ghiglieno, durante una conferenza stampa mi lascio scappare una battutaccia contro il sindaco di Torino Diego Novelli. I giornalisti riportano le parole ma non chi le ha dette. Tenace, Novelli lo scopre dopo nove mesi. Era fine luglio. Si precipita in Fiat e chiede all’Avvocato il mio licenziamento. Agnelli lo tranquillizza, lo congeda e mi manda a chiamare. Racconta ridendo e poi la battuta. Sapeva che sarei andato in vacanza nelle Filippine. “Meno male che adesso va nelle Filippine, la si che le insegnano le pubbliche relazioni”. Erano i tempi del dittatore Marcos. Con un Romiti o un De Benedetti sarei già stato licenziato.
Una ventina d’anni (lasciai la Fiat nel 1984) incontrai il favore degli astri. Non lo sentivo da tempo. Mi telefonò per dirmi che era contento e che lo meritavo.
Romiti, stizzito per il mio abbandono, mi obliterò, proprio come in Vaticano o nell’Urss.
Cresciuto in un mondo di privilegio dinastico, Giovanni Agnelli ne godeva immensamente. Ma forse per questo aveva ammirazione e rispetto per la forza di carattere di chi era diverso da lui. Questo spiega il fascino esercitato su Agnelli da uno come Luciano Lama.

Amava il privilegio e i vantaggi che comportava. Ma ammirava il cognato Carlo Caracciolo, diventato grande editore partendo dal sottoscala perché non da eredità ma da duro lavoro aveva ottenuto il successo.

La vita militare lo aveva segnato, forse perché l’ il privilegio non pesava nella vita quotidiana. Una volta, andando in elicottero da Torino a Villar Perosa, nei pressi di Pinerolo, mi indicò eccitatissimo una scarpata che da giovane cavallerizzo scendeva a cavallo con grande rischio.

Un’altra volta doveva andare a New York col Concorde. Io perennemente in ritardo, gli feci perdere la coincidenza a Parigi e dovemmo adattarci a un percorso di 8 ore invece di 3. Fu un incubo. Non mi rimproverò mai, non me lo fece mai pesare. Ma per tutto il viaggio, appena vedeva che cedevo al sonno, mi svegliava per dirmi qualcosa. In quella occasione mi raccontò di comue aveva sventato il tentativo del nonno di farlo partire per la guerra. Agnelli usò Edda Ciano, la figlia di Mussolini, di cui parlava con ammirazione (e con disprezzo del marito) per ottenere l’arruolamento. 
Grande fu anche, in modo diverso ma altrettanto importante, suo fratello Umberto, nato 16 anni dopo di lui, morto un anno dopo. Fu un uomo sfortunato, nella vita e nella discendenza. Fu persona di grande sensibilità, come dimostra questo fatto. Umberto Agnelli era  stato rimosso dal fratello Gianni, che l’aveva sostituito con Cesare Romiti nella carica di amministratore delegato della Fiat, per ordine di Cuccia, vero dominus della grande industria italiana in quegli anni. La posizione di Cuccia non era insensata. Consapevole dello scontro che stava per scatenarsi fra azienda e sindacato, nel vuoto dei partiti, Cuccia temeva che una sconfitta avrebbe trascinato anche la famiglia principale azionista. Con Romiti, fossero andate male le cose, si sarebbe ripetuto il modello 25 luglio. Così me lo spiegò, pur senza riferimenti storici, lo stesso Avvocato.

Bene, quel medesimo giorno che veniva diciamo pure brutalmente estromesso dalla partita della vita della Fiat e anche dell’Italia, Umberto Agneli si fece portare da un famoso gioielliere di Torino, Fasano, e comprò un regalo per me, un cestino d’argento con sul coperchio una volpe dormiente tutta in filo d’argento. Chi di noi lo avrebbe mai fatto?
Umberto Agnelli nutriva una devozione profonda per il fratello maggiore, al di là di ogni possibile diversa visione delle cose, biologicamente naturale in due uomini formati in epoche divise dal displuviale della guerra.
Entrambi adoravano Luca Montezemolo, unico in un mondo di sicofanti a dire la sua con schiettezza e lealtà. Con questa leva, Montezemolo riusciva a metterli d’accordo.
La lealtà dell’Avvocato verso Montezemolo testimonia la stima e la fiducia, fino alla fine, verso una delle persone più capaci che ho conosciuto. Credo di non essere in questo accecato dalla gratitudine per la persona cui devo di più al mondo. 
Giustamente Montezemolo diventò, dopo i due fratelli (intervallati da Romiti, presidente della Fiat. Ha fatto cose egregie, molte di più ne avrebbe fatto se fosse stato più fortunato.

Ho letto un po’ di cose in questi giorni, spesso banalità sinistresi.
Molto alta l’intervista del nipote John Elkann, figlio della figlia Margherita, ultimo presidente della Fiat prima della fusione con Peugeot.
John Elkann ha superato il nonno in una impresa che all’Avvocato non riuscì per ben due volte, con la Citroen negli anni ‘60 e con la Ford nei ‘90, che ha salvato la Fiat è un pezzo d’Italia facendola confluire in una dimensione mondiale. La retorica patriottica incrociata a sinistra non gliene renderà merito. Per me John Elkann si già conquistato il suo posto nella storia.
Tuttavia il confronto fra nipote e nonno per ora si deve fermare qui. Le condizioni ambientali in cui oggi opera un imprenditore non sono paragonabili con quelle degli anni ‘60, quando Giovanni Agnelli subentrò a Vittorio Valletta nella presidenza della Fiat.
Si era fermata la prima spinta del boom, la cavalcata della industria italiana dopo il disastro della guerra e oltre la miseria autarchica, proletaria e fasista di Mussolini.
Nelle grandi aziende i rapporti fra padroni e lavoratori si erano fatti aspri. Il sindacato agiva secondo varie spinte. La prima era ottenere una più equa distribuzione del reddito accumulato negli anni della crescita. I risultati furono ottimi.
Al punto da togliere spinta a un altro obiettivo che si inserì forse fin dall’inizio, quello della rivoluzione.
Valletta pianse al primo sciopero, così mi ha raccontato Umberto Agnelli. I grandi imprenditori italiani non erano preparati alla durezza dello scontro. Il Fascismo e poi il boom avevano agito da anestetico. Le grandi imprese erano in prima linea. La convergenza fra guerra di classe e pauperismo cattolico fu devastante: il ‘68 in Francia durò un mese, da noi non è mai finito.
Piccolo è bello era lo slogan di quegli anni. Col piccolo imprenditore, spesso lui medesimo di estrazione operaia, era più facile capirsi e tante altre cose. L’esistenza di tre grandi sigle sindacali (4 alla Fiat) complicava ulteriormente il quadro.
Il Pci fu all’origine della spinta rivoluzionaria iniziale. Fu però anche il primo partito a rendersi conto della crisi, del fatto che Fiat non disponeva di risorse inesauribili, che la rivoluzione avrebbe travolto anche il partito dei lavoratori.
Erano anni duri, di fuoco, presto sarebbero stati di piombo.
I due fratelli Agnelli tennero la barra ferma. Giovanni Agnelli seppe resistere a ogni tentazione di abbandono.
Molto merito fu di Umberto ma l’ultima decisione era sempre la sua.
Anni dopo Cesare Romiti usò la concessione dell’adeguamento automatico delle retribuzioni alla inflazione, la scala mobile, come simbolo della debolezza dell’Avvocato.
Sarebbe stato bello vedere Romiti al suo posto: “Minacciarono di occupare Mirafiori, cosa potevo fare?” mi disse l’Avvocato.
(La scala mobile fu abolita negli anni ‘90 e fu uno dei contributi decisivi, insieme con la fine del terrorismo, alla ripresa nazionale dato da Pci e Cgil. Quest’ultima pagò il prezzo più alto in termini di consenso).
Romiti, uomo di straordinaria quanto intermittente generosità, dal canto suo non lo ho mai percepito come un vero duro”. Lo diventò dopo che Vittorio Ghidella, Carlo Callieri e Cesare Annibaldi piegarono i sindacati dopo un mese di occupazione della Fiat. Fino alla fine Romiti spingeva per un accordo qualunque anche al ribasso, forse con la segreta speranza di scaricare poi le automobili allo Stato. Niente di disdicevole in quelle circostanze.
Alla una di notte il sindacato crollo. In un lampo Romiti si appropriò del successo.
La sera dopo ero nel mio ufficio a Torino. Il tg delle 20 manda in onda una intervista a Romiti che devo ammettere era sfuggita al mio controllo. La sintesi era uno sfolgorante: “Abbiamo vinto”. Prendo il telefono e chiamo il mio capo, Luca Montezemolo. “Hai sentito quello che ho sentito io?”
In realtà la strategia per riportare l’azienda sotto controllo era stata elaborata nell’ufficio di Umberto Agnelli prima che Cuccia ne imponesse l’allontanamento. E approvata in quello dell’avvocato.
Fu un momento displuviale per la storia d’Italia. Prima c’erano Prova d’orchestra di Fellini, steward e hostess della Alitalia che insultavano i passeggeri, e soprattutto un fermento che fu brodo di coltura del terrorismo.