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Cosa c’è dietro le critiche a Chiara Ferragni: il successo (femminile) come colpa e la forza di essere «unapologetic»

Chiara Ferragni a Sanremo fa discutere. Era inevitabile: l’imprenditrice digitale, al debutto in veste di co-conduttrice del Festival, suscita sempre reazioni polarizzate: molti la amano, altrettanti sembrano odiarla. Questa volta, poi, c’è di mezzo Sanremo e l’Ariston, si sa, ingigantisce le proporzioni di ogni cosa, dai passi falsi (veri o presunti) ai messaggi lanciati dal palco. E allora, per capire cosa c’è dietro (molte delle) critiche mosse a Ferragni, iniziamo da qui, cioè dai messaggi che ha scelto di portare a Sanremo. Con il corpo — ovvero con gli abiti — e con le parole.

I look e gli «abiti-manifesto»

Le sue scelte in fatto di vestiario non potevano che essere studiatissime: essendo Ferragni un’influencer di moda, oltre che un’imprenditrice, da lei tutti si aspettavano molto. Per mettere a punto i suoi look sanremesi, si è affidata a una delle designer più talentuose e rispettate — oltre che più apertamente femministe — al mondo: Maria Grazia Chiuri di Dior. «Abbiamo subito capito di non volere vestiti solo perché eccentrici o pretenziosamente belli», ha spiegato Ferragni su Instagram. «Sentivamo la necessità di portare sul palco più popolare d’Italia un messaggio sociale». Il risultato è una sequenza di «abiti manifesto», fatti non tanto per lasciare tutti a bocca aperta ma per lanciare dei messaggi: un’elegante stola bianca invita chi legge a pensarsi «libera» (una citazione del duo di arte concettuale femminista Claire Fontaine), un vestito riproduce il corpo di Ferragni e ne rivendica la riappropriazione, una gonna-gabbia evoca gli stereotipi di genere da cui evadere, un tubino bianco decorato con gli insulti degli hater li riflette verso l’esterno, depotenziandoli e denunciandoli allo stesso tempo.

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I vestiti di Chiara Ferragni a Sanremo 2023
Le parole ed i gesti

Oltre agli abiti, però, ci sono i gesti. E le parole. Su Instagram, nel post (subito virale) dedicato al suo primo look della serata, Ferragni ha parlato della sua «lotta per non essere incasellata in uno spazio identificato per lei dal patriarcato», rispolverando termini — «lotta», ma soprattutto «patriarcato» — che a molti sembrano desueti, superati, polverosi. E invece (sorpresa!) con Ferragni tornano, e non per la prima volta, sulla bocca di tutti. Poi, sul palco, Ferragni ha portato con sé le operatrici dei centri antiviolenza della rete D.I.Re. Ha usato una sua occasione di visibilità — una volta forse l’avremmo chiamata “spazio di parola” — per far parlare chi, ogni giorno, sta accanto alle vittime della violenza di genere e le aiuta a riappropriarsi delle loro vite. A loro ha devoluto anche il suo cachet, spiegando: «Ho sempre cercato di legare il mio percorso a diverse cause e quella dell’emancipazione della donna mi è sempre stato a cuore».

Il monologo

Parole e fatti, dunque. E poi c’è il monologo, anzi: la lettera. Ferragni si è rivolta alla sé stessa bambina e le ha dato dei consigli da donna adulta, da professionista, da madre. Ha parlato di fiducia in sé stessa, della fatica di essere donne in un mondo ancora dominato dagli uomini, della maternità, del lavoro. Non c’è nulla di casuale ed è inevitabile che sia così: parliamo di una professionista che lavora (anche) con la sua immagine ed è, evidentemente, molto brava a muoversi lungo la faglia del pop.

Le critiche

Tutto questo — e molto di più — è stato dissezionato in diretta da milioni di persone. E poi ulteriormente passato al setaccio nel day after del Festival. Spietatamente, talvolta morbosamente. Succede a chiunque calchi il palco dell’Ariston, è vero, ma alle donne, da sempre, un po’ di più. Soprattutto se sono, come lei, così esplicite nel fare, dire ed essere, con orgoglio, esattamente ciò che vogliono. E qui sta il punto. L’espressione più adatta per descrivere Ferragni a Sanremo va presa in prestito dalla lingua inglese: unapologetic. Traduzione letterale: impenitente. Perché Ferragni non era per nulla dispiaciuta di essere lì, su quel palco, con quegli abiti, con in bocca quelle parole. Era emozionata, certo. Ma era, prima di tutto, contenta. Fiera.

Ora pullulano i giudizi, professionali o meno, su ciò che Ferragni ha detto, fatto, indossato. Chi la critica lo fa principalmente per il nude look “troppo rilvelatore”, accusato di “mercificare” ancora una volta il corpo femminile; oppure per la scelta “di convenienza” di associarsi a una causa — l’emancipazione femminile — che alcuni giudicano ormai “di moda”. L’influencer più seguita e denigrata di sempre — una combinazione scomoda da portare addosso — ha avuto il coraggio di essere divisiva e l’ha fatto, con tutta evidenza, consapevolmente. Ha usato tutti gli strumenti che aveva a disposizione — la moda, la fama, i social — per dire precisamente ciò che voleva. Sapeva benissimo, in partenza, che le critiche sarebbero arrivate. Lo ha detto anche nel monologo, rivolgendosi alla bambina che è stata: «Sai, non piaccio proprio a tutti». Ma piacere a tutti, in fondo, sarebbe stato impossibile. Persino per lei, anzi: soprattutto per lei. Per riuscirci, Ferragni avrebbe dovuto accontentare tante aspettative diverse in contemporanea. Avrebbe dovuto essere seria, ma senza prendersi troppo sul serio; parlare di sé senza dare l’idea di essere troppo orgogliosa di chi è; spendere la propria visibilità per una causa importante, senza però essere mai visibile. Avrebbe dovuto essere tutto e il contrario di tutto, senza mai guadagnarci niente — neanche una lode — perché «non è disinteressata, lo fa per il suo brand».

La sfida impossibile

Prendiamo, ad esempio, il monologo. C’è chi lo ha criticato perché troppo ombelicale. Ma è del tutto evidente che se Ferragni avesse parlato non di sé stessa, ma di qualcosa d’altro, sarebbe stata subissata da critiche, perché «non ha le competenze per dire la sua su questo tema». Quando ha dichiarato, con semplicità, di aver scritto da sola il testo della lettera, c’è chi ha alzato un sopracciglio (compreso chi per mestiere scrive i monologhi altrui, e non sorprende). Ma lei lo aveva detto chiaramente, fin dalla prima conferenza stampa: non sono un’attrice, non sono una conduttrice, sul palco porterò me stessa. Cioè una donna che si è letteralmente costruita una professione su misura, che prima neanche esisteva, tenendosi sempre al passo coi tempi, cavalcando prima i blog, poi i social, infine la (scivolosissima) terra di mezzo di chi è famoso offline quanto online. Non era facile, soprattutto se consideriamo quanto sia chiuso e ostile il business della moda. Però lei ce l’ha fatta. Non da sola — e lo dice, anzi: va fiera del suo team di lavoro — ma neanche “grazie a qualcuno” (come ha ribadito nella sua lettera a sé stessa). Ha saputo scegliere le persone giuste con cui lavorare e ha creato il suo successo un pezzetto alla volta; ora ne coglie i frutti, e ne va fiera. E tutto questo, a molte persone, non va giù. Dietro tante critiche — non tutte, certo — c’è un sottotesto indicibile, ma evidente a chiunque abbia la pazienza di grattare un po’ la superficie: il fastidio che, ancora oggi, suscita una donna di successo. Imperfetta, certo. Ma soddisfatta del punto a cui è arrivata. Esplicitamente e visibilmente unapologetic.

Il successo come colpa

Eppure il successo che viene rinfacciato a Ferragni non è e non dovrebbe essere una colpa, ma un merito. Perché ci costa così tanto riconoscerle ciò che le spetta di diritto? Perché il fastidio per il suo successo avvelena così tanti dei giudizi che la riguardano? La risposta sta nello sguardo asimmetrico che, ancora oggi, riserviamo alle donne. Nelle aspettative (irrealistiche) di perfezione con cui chiediamo loro di confrontarsi. Le stesse che denuncia Ferragni, su Instagram, quando parla delle sua «lotta per non doversi sentire in colpa del suo successo». Vale per lei, sul «palco più popolare d’Italia», ma in realtà vale per tutte noi, su tutti i palchi della nostra vita.