Italy
This article was added by the user . TheWorldNews is not responsible for the content of the platform.

Giornata in memoria delle vittime di mafia, Francesca Bommarito:«Mio fratello non è stato ucciso “per caso”»

Cosa succede nelle famiglie colpite dalla mafia? Come cambia tutto quando una persona viene brutalmente uccisa o fatta saltare per aria, semplicemente perché secondo qualcuno ha parlato troppo? Cosa resta di quel prima? È possibile impiegare quasi 40 anni per ottenere la verità? E la giustizia? È partita da queste domande Francesca Bommarito, oggi psicologa e psichiatra per ricostruire ciò che è accaduto a suo fratello, ucciso 40 anni fa dalla mafia, in quella Sicilia martoriata dalle guerre di mafie, dove ogni giorno le strade si riempivano del sangue di vittime innocenti. 

«È lunedì, sono circa le ore 20, quando il capitano Mario D'Aleo, comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, prende posto sull'auto militare accanto all’autista, il carabiniere Pietro Morici, per recarsi a Palermo, dove vive con la sua compagna Antonella. Sul sedile posteriore sinistro siede l’appuntato Giuseppe Bommarito. La Fiat Ritmo, blu militare, con i tre carabinieri a bordo, da viale della Regione Siciliana imbocca la via Scobar e si ferma al civico 22. Mancano pochi minuti alle 20.30. Il capitano scende. Ha in mano un cestino con delle albicocche, che Bommarito ha raccolto per lui in campagna, e il giornale “L’Ora” di Palermo. All'improvviso, una scarica di colpi di arma da fuoco lo colpisce. Pietro viene colpito mentre con le mani tiene il volante; per ultimo, con un colpo di lupara alle spalle, viene ucciso Giuseppe Bommarito, fratello di Francesca».

Quarant'anni dopo, Francesca Bommarito ha ricostruito, nonostante i numerosi depistaggi, la verità sull'omicidio di suo fratello. E l'ha scritta nel diario inchiesta «Albicocche e sangue», edito da IOD Edizioni, con la prefazione del magistrato Nino Di Matteo e disponibile in libreria. 

Di seguito, in occasione della Giornata in memoria delle vittime di mafia, che si celebra il 21 marzo, ne pubblichiamo un estratto.

«Il 13 giugno 1983, nella strage di via Scobar a Palermo, vengono falcidiati tre carabinieri, uno è mio fratello Giuseppe. Le armi usate sono quattro; Giuseppe viene colpito per ultimo, alle spalle e con la lupara. Dalla caserma di Monreale, dove prestavano servizio le vittime, si divulga la notizia che Giuseppe è stato ucciso per caso... per amicizia... perché stava accompagnando a casa il capitano. Da subito, formulo l’ipotesi che se a Giuseppe è stata riservata la lupara, è plausibile che lo si volesse punire come “infame” forse per aver riferito qualcosa che non doveva, e gli si volesse chiudere la bocca per sempre. La mia mente, e non soltanto, si mette in moto alla ricerca della verità; mi muovo, inizialmente, come un viandante che desidera raggiungere una meta, disponendo di due dati: la lupara; morto per caso. Gradualmente la mia ricerca, supportata dal lavoro che svolgo come psichiatra e psicoterapeuta, dopo trentaquattro anni, raggiunge la meta desiderata: Si ritiene […] che nei confronti del graduato fosse più accesa la volontà di vendetta perché proprio lui con il suo operato e nonostante sollecitato a tacere, aveva condotto all’arresto di Salvatore Damiani,  capomafia di Monreale, che a sua volta rispondeva alla mafia corleonese. Durante l’ultimo arresto, Salvatore Damiani era stato per l’ennesima volta ritenuto non colpevole, persona pulita, “graziato” e scarcerato il nove giugno 1983. 

Le storie che verranno narrate nascono dalla volontà di rendere giustizia a chi è stato ucciso per difendere lo Stato: poliziotti, carabinieri, magistrati e quei giornalisti che hanno ritenuto fosse loro dovere non chiudere gli occhi di fronte alla verità e che si sono trovati in prima linea, non per eroismo, ma perché troppo spesso abbandonati, isolati, ritenuti fuori dalla società, dei “diversi”, messi sotto accusa da una maggioranza tutt’altro che silenziosa. Perché loro e non altri? Con quale logica si sono svolte tali vicende, in quali momenti e fino a che punto si è voluto stroncare queste vite, ponendo fine ad alcune indagini scomode? Può esserci un unico filo conduttore che unisce la scandalosa mattanza in Sicilia che ha decimato sistematicamente gli uomini delle istituzioni, impegnati a far luce sui legami criminosi tra mafia e politica senza che si arrivasse a una reale verità? Cosa intendiamo per filo conduttore delle indagini? 

Un filo rosso che collega la morte di servitori dello Stato, figure esemplari, guidate da un’idea di legalità al servizio dei cittadini, eliminate fisicamente nel momento in cui minacciano gli interessi di una classe dominante. Queste pagine nascono dall’intenzione di dare delle risposte non soltanto ai parenti delle vittime, ma anche a tanti cittadini che vorrebbero uno Stato migliore, di comprendere le motivazioni profonde di una volontà di rimozione – se non di negazione – da parte delle istituzioni. Perché una parte dello Stato così spesso non si identifica con chi ha difeso la legalità, ma sembra voler proteggere un determinato status quo, un ceto sociale parassitario, rimasto per anni nell’ombra e oggi sfacciatamente di nuovo alla ribalta, perennemente impunito, persino al costo di disattendere il più fondamentale dei doveri della Repubblica, quello di tener vivo nel cuore e nell’animo dei cittadini la fiducia nello Stato come primo baluardo e difensore della giustizia sociale?

Un ceto che collega in modo trasversale politici, professionisti, banchieri, polizia e criminali, collusi tra loro, una maggioranza silenziosa disposta a servirsi di manovalanza mafiosa. Manovalanza che, nella speranza di una propria lievitazione nella scala sociale attraverso la partecipazione alla spartizione di benefici economici che potrebbero garantire una temuta rispettabilità, in realtà perde definitivamente ogni residuo connotato di umanità. Un’illusione per la maggior parte dei mafiosi che finiscono ammazzati o in galera, una garanzia per un ceto parassitario che, per arricchirsi e continuare a dominare conservando i propri privilegi, mantiene il Paese in un immobilismo profondamente ingiusto. Il problema dello Stato, di chi rappresenti realmente oltre ogni retorica, è a nostro parere una questione di fondo: la perenne ambivalenza dello Stato nel linguaggio e nelle azioni, soltanto in apparenza democratico, troppo spesso distante e oligarchico, rende difficile ai cittadini ogni possibilità di identificarsi in esso». 

Altre storie di Vanity Fair che ti possono interessare:

-Matteo Messina Denaro, la sua storia diventerà un film

-Matteo Messina Denaro: i 10 dubbi sul suo arresto

-Chi era il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa