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Guardare il nuovo film di Nanni Moretti è l’ultimo rito collettivo che ci è rimasto

«Cazzo, è tornato Apicella». Se pensate che la frase abbia margini d’equivoco, mi dispiace per voi. Mi dispiace per voi che vivete in un universo in cui «Apicella» è Mariano, quello di Berlusconi, e non Michele, quello di Nanni Moretti. Soprattutto, mi dispiace per voi che non avete amici (o avete amici con cui parlare delle cose sbagliate).

Ho iniziato ad aspettare il nuovo film di Nanni Moretti l’ottobre scorso, quando in un’intervista Adriano Panatta ha raccontato una partita di doppio in cui lui giocava con la Buy e Moretti con Giovanni Veronesi. Come tutti, ho pensato: ma è un film di Nanni Moretti. 

Quando «Cazzo, è tornato Apicella» arriva sul mio WhatsApp, ieri mattina, il trailer del nuovo film di Nanni Moretti è sul suo Instagram da un’ora, e l’abbiamo già visto tutti.

Quelli che Moretti lo chiamano «Nanni» perché sono amici suoi, e quelli che lo chiamano così perché è un pezzo del loro lessico famigliare e non è che si possa chiamare la propria formazione in modo non confidenziale; quelli che “Tre piani” l’hanno trovato mica male, e quelli che si sono depressi pensando che Nanni avesse finito le cose da dire; quelli che sottovalutano “Caro diario” e quelli che lo considerano un capolavoro; quelli (i morantiani felici pochi) che Il sol dell’avvenire l’hanno già visto e bullizzavano noi mortali già da settimane, mesi, secoli dicendo non sai, il ritorno di Michele Apicella, che meraviglia, e quelli – noialtri mortali – che hanno segnato sull’agenda (di carta, naturalmente) il giorno in cui torneranno a fare un gesto antico quale andare al cinema (esce ad aprile, manca poco; peraltro: “Aprile” altro film sottovalutatissimo dagli esegeti del morettismo).

L’avevamo già visto tutti ed era già piaciuto a tutti: a quelli che era da quell’intervista di Nanni a Hollywood Party che ripetevano «centonovanta paesi», e ora si sentono come se avessero sbirciato la sceneggiatura in anticipo; a quelli che hanno i puccettoni che guardano “Mare fuori” e pensano: finalmente un film in cui quella capra del puccettone mio riconoscerà un’attrice; a quelli che temevano che il Nanni dolente ormai fosse irreversibile, e certo mica puoi chiedere a un autore di restare sclerotizzato nel sé stesso che piace a te e mica pretendevi rifacesse “Ecce Bombo”, però cos’avresti dato per riavere anche un solo «Lei è il più bravo», «Che condanna, me lo dicono sempre tutti» (da “Habemus Papam” sono passati dodici anni: sembrano dodici secoli, sembrano dodici ore).

Quando il minuto e mezzo del nuovo Nanni è apparso sul mio telefono, ho pensato che c’era una risposta alla domanda sulla sindrome sorrentina: possono fare grandi film i registi che fanno le cose migliori fuori dal set?

Lo so, vi vedo, non fate quella faccia, non chiedetevi se sono scema (cioè chiedetevelo pure liberamente, però prima spiego).

Se negli anni Settanta fosse esistito TikTok, non ci sarebbe mai stato “Io sono un autarchico”. Oggi un nuovo Nanni Moretti non nasce, perché un Nanni ventenne d’oggi (un’immagine che fatico anche a figurarmi: un Nanni con lo smalto alle unghie? Un Nanni tatuato? Un Nanni che, con la scusa di prendere per il culo Nino Manfredi che fa vedere le sigarette alla macchina da presa, fa pubblicità alle sigarette, ma siccome è un Nanni di questo secolo non la chiama pubblicità ma adv?) ha un linguaggio che poi al cinema non riesci a trasportare, e d’altra parte i suoi coetanei non hanno più neuroni disponibili a stare attenti un’ora e mezza.

Epperò, se Sorrentino ha fatto i film prima di mettersi a fare Sorrentino, Moretti ha fatto decenni di Moretti (di Apicella, che per tutti noi che mica siamo amici suoi era io narrante, ma anche io-proprio-io) al cinema, prima di fare Moretti che chiede a Louis Garrel come risolvere la questione che il pubblico ora li guarda su Instagram e non al cinema.

Quindi, se guardi Sorrentino che monologa contro l’entusiasmo alle riunioni dei genitori e ti dici «ma perché i suoi film non possono essere così», Moretti che smista ragazze romane accorse al Nuovo Sacher per strizzarsi le mutande medie riflessive di fronte a Garrel ti fa fare una riflessione un po’ diversa, cioè: ma questo è un suo film.

Il suo film che vorrei vedere, altro che “Mia madre”. Il suo film che vorrei vedere, altro che “La stanza del figlio”. Il suo film che vorrei vedere, altro che “Tre piani”. (Me lo vedo, Moretti, che rivaluta i settimanali – sui quali pensava che la vita di un uomo venisse rovinata finendoci, prima di scoprire quanto poteva venire rovinata finendo sull’internet – e si chiede chi sia questa improponibile cretina che vuole spiegare a lui che film dovrebbe fare, questa stolida massaia con velleità culturali la cui categoria critica è «a’ Nanni, facce i film allegri», questa emulazione neppure riuscita della giornalista di “Palombella Rossa”, questa pretenziosa niente, questa).

Che tutti quelli che conosco abbiano passato una giornata feriale a commentare un trailer visto sul telefono come una volta avrebbero commentato all’uscita dal cinema cosa dice del nostro tempo?

Che abbiamo così fame di cose belle, e ce ne danno così poche, che ci basta il minuto e mezzo di Silvio Orlando che da tutta la vita sognava d’impiccarsi e di Elena Lietti che gli dice che la sua sceneggiatura è uno slow burner per essere felici?

Che per il giorno d’uscita del film dovremo prenderci una giornata di ferie? Che con aspettative così alte si rischia di farsi molto male? Forse solo che, cazzo, è tornato Apicella: ora sì che è primavera.