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«Il mio compagno mi maltratta psicologicamente. Abbiamo due figli e vorrei lasciarlo. La legge mi tutela?»

Buongiorno Avvocato,
il padre dei miei figli mi offende, mi umilia e mi mortifica quotidianamente davanti ai nostri bambini, di 7 e 12 anni, mi controlla in maniera ossessiva, ma non mi ha mai alzato e mani.
Sono davvero stanca, depressa e sento che la mia autostima diminuisce ogni giorno. Vorrei separarmi, ma ho paura delle sue minacce e delle sue reazioni. Non siamo sposati, ma solo conviventi.
La legge mi tutela?
Stefania

Cara Stefania, la rassicuro subito, certamente sì.

Valeria De Vellis avvocatessa specializzata in diritto di famiglia della persona e delle successioni

Valeria De Vellis, avvocatessa specializzata in diritto di famiglia, della persona e delle successioni

La legge sugli ordini di protezione contro gli abusi familiari prevede che il coniuge o il convivente violento possa essere allontanato dalla casa familiare quando la sua condotta sia causa di grave danno per l’integrità fisica e morale o per la libertà del partner e dei figli. La gamma dei comportamenti da considerare, quindi, è molto ampia: non solo aggressioni fisiche, ma anche violenza verbale e psicologica, costrizioni, minacce, abusi sessuali, privazione e menomazione della libertà di movimento o di determinazione.

Molte sentenze hanno affermato il principio per cui il clima di possesso, di controllo, di gelosia, i comportamenti verbalmente aggressivi, ingiuriosi, denigranti, vessatori, manipolatori, ovvero la violenza psicologica giustifica l’allontanamento immediato del partner abusante dalla casa familiare, anche in assenza di episodi di violenza fisica. Ciò in quanto le offese, le critiche, le accuse, la mancanza di rispetto, la svalutazione, il tentativo di controllo della libertà personale, attuato per esempio anche tramite i dispositivi elettronici quali cellulare e pc, rappresentano comunque una forma di abuso emotivo, di maltrattamento e di sopraffazione, che nel tempo mina il valore personale, il senso di identità, la dignità e l’autostima del coniuge o del convivente che subisce questi comportamenti.

Se, infatti, la violenza fisica è immediatamente riconoscibile, la violenza psicologica è più subdola ma altrettanto grave, in quanto incide sulla sfera soggettiva, generando angoscia e sofferenza in chi la patisce; spesso è imprevedibile quando, come solitamente accade, a esplosioni di rabbia si alternano momenti di grande affettività che, evidentemente, disorientano la vittima e la destabilizzano.

Nel suo caso, poi, c’è l’aggravante per cui le manifestazioni di aggressività sono state poste in essere dal suo compagno in presenza dei vostri due figli piccoli, con conseguente pregiudizio, tra l’altro, della sfera psicologica dei minori, vittime di violenza assistita, e del loro sviluppo morale ed educativo.

Per tale motivo, oltre all’allontanamento del suo compagno dalla casa familiare, può chiedere al giudice che gli incontri tra il padre e i figli avvengano in forma protetta, cioè in presenza di terze persone, educatori professionali, che possano tutelare i bambini e preservarli da eventuali comportamenti inadeguati del padre; può chiedere, altresì, un sostegno economico per i minori a carico del padre.

La legge le dà anche la possibilità di denunciare penalmente il suo compagno, in quanto i suoi comportamenti, per come lei li descrive, sono dei reati.

Certamente, la violenza psicologica è molto più difficile da dimostrare in Tribunale, perché non lascia segni visibili.

Per provare i danni che lei ha subito a causa dei maltrattamenti del suo compagno, le suggerisco di procurarsi certificazioni sanitarie, meglio se del servizio pubblico, dei suoi disturbi depressivi o da stress post traumatico, da allegare al ricorso da presentare in Tribunale. Con le dovute cautele, registri le minacce e le aggressioni verbali del suo compagno quali ulteriori prove da portare al giudice e coinvolga tutti coloro che hanno assistito a tali aggressioni e possono testimoniarle.

Le consiglio di attivare subito un sostegno psicologico, sia per liberarsi dal senso di colpa, sia per evitare di cedere alle lusinghe che quasi certamente il suo compagno metterà in atto per farla tornare sui suoi passi. Si ricordi che nessun carnefice vuole perdere la sua preda. Non abbia paura che questo possa farla apparire in tribunale come una “cattiva” madre. Al contrario, i giudici valuterebbero la sua decisione di intraprendere una terapia come un gesto di responsabilità, personale e genitoriale. Come diceva Winnicott, un grande psicoanalista inglese, la madre “sufficientemente buona” è quella che passa la vita a riparare i suoi errori.

La legge, quindi, la tutela.

Coraggio Stefania, reagisca e chieda aiuto, per sé e per i suoi figli, che hanno il diritto di crescere in un ambiente sereno. E di sorridere.