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Il vittimismo complottista di Johnson, unico responsabile della sua caduta

È un passo indietro con accenti trumpiani, seppur non eversivi. Una beffa del destino che arrivi nello stesso giorno in cui l’ex presidente viene incriminato per i documenti riservati stipati a Mar-a-Lago come fossero annuari delle superiori. L’ex primo ministro inglese Boris Johnson si dimette dalla carica di deputato. Perché costretto, perché a corto di alternative. Ha visionato il risultato dell’indagine a suo carico per il Partygate, le feste in pieno lockdown nei palazzi governativi di Londra, e le carte della commissione speciale lo inchiodano: ha ingannato il Parlamento.

La conseguenza politica più tangibile, e immediata, sarà un’elezione suppletiva nel suo seggio. Dal tenore del suo comunicato, pare intendere che non si farà da parte, ma vorrà correre, anche se nelle mappe dei sondaggi Uxbridge & South Ruislip è considerato un collegio «contendibile», oppure già colorato del rosso dei laburisti. Si dice triste di lasciare Westminster, ma infioretta un «almeno per il momento» che ricorda l’«Hasta la vista, Baby» pronunciato all’ultimo Question time da premier.

Ci ha provato a tornare a Downing Street, lo sappiamo, ma nei giorni convulsi dell’autocombustione dell’esecutivo di Liz Truss si è arreso alla realtà di non contare più come prima. In autunno millantava schiere di decine di fedelissimi, evaporate quando il partito conservatore gli ha preferito Rishi Sunak. Oggi invoca, anzi evoca, i quattordici milioni di voti del 2019, il suo apogeo. Una vittoria a valanga che la sua gestione del potere – nonostante lui accusi i successori – ha sperperato, travasando percentuali simili agli avversari, sfrattati da Downing Street nel 2010.

Boris fa la vittima, la cosa che gli riesce meglio. Come tutti i leader populisti, e lui è un populista di classe, con quarti di nobiltà, agita quell’investitura popolare, ma è distante nel tempo. Sostiene che le conclusioni (viste, almeno finora, solo da lui) del Committee of Privileges siano zeppe di errori e pressapochismi; che Sue Gray, la civil servant nominata proprio da Johnson nella prima fase degli accertamenti, ora sia a libro paga di Keir Starmer. «Non credo sia una coincidenza».

Ma poi cede al complottismo. Più che istinti revanscisti, dev’essere il suo ego a fargli sospettare sia andata così. Se un mentitore seriale di talento viene defenestrato, è il retropensiero, è perché sconta un accanimento. In particolare, dice l’ex primo ministro, esiste(va) un piano ordito dai laburisti – e da chi, sennò? –, dai libdem e persino dagli indipendentisti scozzesi per farlo fuori (politicamente). Siete contenti ora?, trasuda dal comunicato dove solo una penna brillante come la sua riesce a impaginare in belle frasi il testosterone.

Poi allarga la lista dei “carnefici” a un pezzo del suo partito. Sunak non viene nominato mai, se non a fini di autodifesa legale, quando si sostiene che c’erano altri ufficiali, tra i quali lui, convinti che la condotta dell’esecutivo fosse perfettamente regolare. Ma poi Johnson lo incolpa di fatto della caduta nei sondaggi e, sempre senza apostrofarlo, tira dritto: dov’è finito l’accordo commerciale con gli Stati Uniti? (Riecco l’America). Perché non abbiamo abolito le vecchie norme dell’Ue ancora in vigore?

«Non dobbiamo temere un governo propriamente conservatore», conclude. Ma si sta scusando per una faccenda che finge di aver subìto ma non ha altri colpevoli che lui o si sta candidando alla leadership dei Tories? Sembra appiccicare all’attuale premier l’etichetta cara al movimento trumpista, di «Rino», cioè «Republican in Name Only», con «conservatore» al posto del Gop. Sono toni affini a quelli dell’alt-right alla teina capitanata da Nigel Farage, che paragona i ministri agli odiati «commissari europei» e invece di meno Brexit, ne voleva di più.

«Non sono l’unico a pensare che sia in corso una caccia alle streghe, per vendicarsi della Brexit e in ultima istanza invertire il risultato del referendum del 2016». Qui siamo al pensiero magico. Ma, di nuovo, la considerazione da statista che ha di sé motiva macchinazioni così enormi dietro un caso così spiccio. Come dire: vogliono farmela pagare. Siamo già a mistiche da eroe shakespeariano, di cui BoJo ha il carisma senza averne il fisico. Come se al “sacrificio” potesse seguire l’ennesima resurrezione politica.

Questa sarà difficile. Prima della notizia, si rincorrevano voci su un possibile cambio di seggio dell’ex sindaco di Londra, proprio per evitargli una figuraccia qualora i laburisti riescano a espugnare Uxbridge & South Ruislip. Era in Parlamento dal 2001; per ripresentarsi alle suppletive, però, gli serve il consenso del partito e, quindi, di Sunak. Lo stesso che Johnson ritiene responsabile della sua caduta, quando per scoprire il vero artefice – altro che complotti – gli basterebbe guardare uno specchio.

Se c’è una cosa che le puntate precedenti ci hanno insegnato è che ogni volta che sembrava al tappeto, Johnson ha stupito le aspettative, dimostrando straordinarie capacità di ripresa. Come un gatto che sa di poter contare su più di una “vita”. Magari ha finito per convincersene anche lui. La sua capacità di incassare è la solita, sbruffona e pirotecnica, ma forse non si è accorto che il match è finito. Per tutti, tranne che per lui.