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In Turchia hanno vinto Erdogan e la paura del cambiamento

«Con questa vittoria si è aperta la porta del secolo della Turchia» ha detto il presidente Recep Tayyip Erdogan durante i festeggiamenti per la rielezione, riferendosi al centenario della fondazione della Repubblica che cade il prossimo 29 ottobre. Dunque, nessuna sorpresa né sorpassi dell’ultima ora: il regno di Erdogan, che ormai può a buon diritto sorridere nel sentirsi chiamare «sultano», ha superato la più difficile delle prove elettorali e si avvia alla terza decade senza particolari scossoni.

Il parlamento aveva risentito poche settimane prima dell’incremento dei deputati dell’opposizione, con l’Alleanza popolare formata dall’Akp di Erdogan e altri partiti di estrema destra e islamisti, che avevano sì ottenuto la maggioranza ma con appena 322 parlamentari su 600 (numero insufficiente per potere eventualmente cambiare la Costituzione, per cui sono necessari 360 deputati, ma a che serve ormai?), e con gli effettivi dell’Akp scesi a 129 (ne aveva 315 nel 2015).

Ora però la vittoria alle presidenziali ha cancellato ogni dubbio residuo su chi detenga davvero il potere in Turchia. Del resto, il parlamento non è più il centro della politica turca da quando Erdogan ha modificato la costituzione in direzione presidenziale, abolendo nel 2017 la figura del premier e dando al presidente il potere di produrre decreti legge che non devono essere approvati dal Parlamento (il quale non può neanche sfiduciarlo).

Certo è cresciuta l’opposizione, ed Erdogan stesso ha avuto dei problemi di salute per l’estenuante campagna elettorale che rischiava di vederlo declinare verso la pensione. Al punto che si è personalmente recato fuori dei seggi elettorali a distribuire denaro contante, come ha mostrato un video allucinante della Reuters che rivela non solo l’approccio bizzarro del capo di Stato alla politica ma anche il timore che aveva di perdere, sia pur di misura, alla vigilia del ballottaggio.

Ma il popolo turco gli ha concesso un altro mandato e la prospettiva di invecchiare sereno tra le mura del palazzo bianco di Ankara, sede del potere centrale. Ha cioè riposto ancora fiducia in lui, o meglio ha avuto grande paura del cambiamento. Ciò nonostante, il popolo si è diviso a metà, confermando la polarizzazione dell’elettorato e la crescita del dissenso interno.

Un dissenso dovuto però soprattutto a fattori che esulano dal giudizio personale sul presidente turco, e che semmai si confermano indirizzati verso preoccupazioni di mero stampo economico, visto che i dati macroeconomici non fanno che allarmare ampi strati di popolazione, spingendo sempre più in basso la classe media borghese che aveva creduto nel «miracolo» erdoganiano dello scorso decennio e che invece sta conoscendo una progressiva e inarrestabile perdita di potere d’acquisto.

L’economia turca versa ancora in uno stato di salute critico, aggravato dal post pandemia, dall’aumento dei prezzi delle materie prime e dei generi alimentari anche a causa della guerra in Ucraina, e dalle conseguenze del disastroso terremoto dello scorso febbraio. Il tasso di disoccupazione si mantiene infatti attorno al 10%, e l’inflazione sale al 44%. Mentre ancora dopo la vittoria al ballottaggio prosegue il deprezzamento della lira (che ha perso oltre il 60% del suo valore rispetto al dollaro negli ultimi due anni).

Così, il «referendum» su Erdogan ci dice in fondo tre cose: primo, che la Turchia ha fiducia nei propri mezzi e crede ancora nel nazionalismo in salsa islamica propalato dal governo di Ankara come mezzo per risollevare le proprie sorti. Secondo, il popolo sopporta di buon grado la contrazione dei diritti, la persecuzione sui curdi, l’uso dei migranti come merce di scambio con l’Ue, le prigioni piene di oppositori politici, l’islamizzazione della società.

La ricetta della paura, commista al grande attivismo diplomatico di Erdogan insieme con il suo riavvicinamento al Russia e Cina, hanno portato i turchi, soprattutto dell’Anatolia centrale e del Mar Nero, a scommettere ancora sul loro leader, così longevo che ha superato persino Kemal Ataturk alla guida della Turchia. E c’è chi ha visto nel discorso pronunciato da Erdogan sopra un autobus per festeggiare la vittoria, un chiaro riferimento al padre della patria quando il presidente ha irriso il suo avversario Kemal Kilicdaroglu, salutandolo così «Bye Bye Kemal»

Tra i primi a fare gli auguri al vincitore Vladimir Putin, che ha invitato il collega «a continuare il nostro dialogo costruttivo su questioni di attualità dell’agenda bilaterale, regionale e internazionale». In questi tempi incerti, un despota che rimane al potere è un conforto per chi, come il capo del Cremlino, è in crisi di credibilità. Ma almeno adesso Putin può riscuotere il debito per il gas che Mosca ha fornito ad Ankara e che ancora il governo non ha pagato saldato, e può anche rilanciare su un appoggio alla sua politica di potenza in chiave anti-Nato, di cui Erdogan è esponente e insider allo stesso tempo.

Finiti i festeggiamenti e incassato il plauso anche di Pechino, ora per la Turchia si apre un periodo problematico, incerto e delicato al tempo stesso: «Le condizioni economiche non possono far altro che peggiorare» commenta Ozgur Ozel dello sconfitto Partito popolare repubblicano (Chp), lamentando tra l’altro che gli osservatori elettorali del suo partito sono stati picchiati e i loro telefoni distrutti in relazione alle irregolarità del voto in varie parti del Paese.

«Non credo che i soldi che ci arriveranno dai Paesi del Golfo saranno sufficienti a farci uscire dalla crisi. Abbiamo un deficit enorme e non sappiamo come sono messe le banche pubbliche e le altre istituzioni. Non sarà certo una buona stagione turistica a salvarci». Sarà, ma intanto l’opposizione deve adesso trovare un’altra via (e anche un altro leader rispetto al moderato Kilicdaroglu) se vuole insidiare le leadership intramontabile di Erdogan.

Da Istanbul, il popolare sindaco Ekrem Imamoglu ha suonato la carica contro il presidente, ricordando che l’opposizione ha già sconfitto il partito al potere ad Ankara e a Istanbul nel 2019, mesi dopo aver perso le ultime elezioni presidenziali. Questo risultato era stato ottenuto solo dopo aver apportato dei cambiamenti nelle più grandi e importanti metropoli turche. «Ma non otterremo mai risultati diversi facendo le stesse cose». Dunque, la Turchia per adesso è in mano soltanto a Erdogan, ma il futuro è ancora dei turchi.