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La propaganda del Cremlino porta i sistemi difensivi dentro le città (ma ai russi non piace)

È strano che in un Paese nei cui cimiteri sono sorte decine di migliaia di croci la gente si arrabbi per l’installazione di poche decine di sistemi antiaerei. È infatti da qualche mese a Mosca e altre grandi città sono spuntate discrete postazioni per la difesa dello spazio aereo, e spesso queste nuove apparizioni sono accompagnate da malumori e timide proteste sui social.

Eppure, la cosa non dovrebbe essere poi chissà quanto sconvolgente. Si tratta soprattutto di missili a lunga gittata S-400 e sistemi per la difesa ravvicinata Pantsir S-1, posizionati in cima a edifici governativi e in spazi abbandonati. Non si tratta certo di un fatto inconsueto per un Paese in guerra, soprattutto considerato che le forze di Kyjiv riescono regolarmente a colpire obiettivi militari sul territorio russo.

Quello che però colpisce è quanto scalpore abbia generato l’apparizione di questi sistemi, seppur con la cautela necessaria e con la consapevolezza di quanto si rischi a criticare le forze armate. A gennaio, il Moscow Times ha intervistato diversi cittadini della capitale preoccupati per la mancanza di comunicazioni ufficiali da parte del governo e snervati dal fatto che una guerra in teoria lontana e compulsivamente ignorata nel quotidiano si sia manifestata sotto gli occhi di tutti.

Una Tari anti-drone
L’apoteosi della polemica è stata però raggiunta a Bryansk, a centoventi chilometri dal confine russo-ucraino. Qui un politico locale ha addirittura suggerito di «normalizzare» la presenza di sistemi, mettendo sul proprio sito la proposta di finanziare la manutenzione dei sistemi antiaerei tramite una tassa regionale. Il servizio stampa del consiglio regionale ha smentito, sostenendo che la pubblicazione è stata frutto di un attacco hacker: fatto sta che l’idea di una Tari antiaerea è stata brevemente ritenuta un’iniziativa credibile.

Tralasciando gli atteggiamenti più grotteschi della classe politica russa, ciò che sorprende è quanto il Cremlino si sia mostrato cauto nel pubblicizzare l’installazione dei S-400 e Pantsir in giro per il Paese. La leadership russa sembra indecisa fra due registri da adottare.

Innanzitutto, è oggettivo che le forze ucraine siano riuscite a penetrare uno spazio aereo precedentemente ritenuto inviolabile. Un obiettivo privilegiato è l’oblast di Belgorod che, come tutte le regioni al confine con l’Ucraina, ospita molte basi logistiche e caserme dove le truppe di invasione si riorganizzano e addestrano le nuove reclute. Tuttavia, questo inverno gli ucraini sono riusciti a colpire anche gli aeroporti militari di Ryzan e Saratov, a seicento chilometri dalla frontiera. Anche in altre città della Federazione Russa sono avvenuti atti di sabotaggio, si pensa utilizzando droni lanciati da piccoli commandos infiltrati nel territorio russo.

Paura o indifferenza?
Tutto ciò ovviamente non fa onore a una sedicente superpotenza militare. D’altro canto, le autorità sembrano fare di tutto per amplificare singoli episodi e segnalare con allarmismo eventi in realtà piuttosto ambigui. Va infatti notato che molte delle esplosioni e incendi avvenuti in depositi di munizioni sparsi per la Russia, spesso ricondotti a una presunta campagna di sabotaggio ucraina, sia verosimilmente frutto di incidenti e incuria da parte delle stesse truppe. Si tratterebbe di un problema riconducibile più alla negligenza degli ufficiali della logistica e alla mancanza di manutenzione delle basi che ad atti ostili. I dubbi abbondano anche per quel che riguarda le accuse mosse dal governatore della regione di Mosca e dal ministero della Difesa contro Kyjiv, che recentemente sarebbe addirittura riuscita a operare droni da combattimento nei pressi della capitale russa.

Combinando questo alla retorica di Vladimir Putin, che parla dell’Ucraina come di uno Stato che rappresenta una «minaccia esistenziale» per la Russia, la domanda sorge spontanea: quale emozione devono provare i cittadini russi, paura o indifferenza? Ha senso evocare uno spirito da “Grande guerra patriottica”, nel quale tutti i russi sono coinvolti in un conflitto senza quartiere che arriva fino a dentro le città? E soprattutto, è pensabile quando si parla ancora di una “operazione speciale” sostenuta da una mobilitazione solamente parziale?

Grande guerra patriottica soft
In un contesto come quello russo, dove il flusso di informazioni è accuratamente sorvegliato dal regime ma nel quale diversi potentati competono per far prevalere una narrativa a loro più congeniale, queste sono domande a cui è difficile rispondere. Gli ultranazionalisti, i parvenus come Evgenij Prigozhin, Ramzan Kadyrov, le forze armate, i tecnocrati dei ministeri, i governatori, i leader aziendali, la Duma: ognuno parla della guerra, e quindi del proprio ruolo all’interno di essa, con una narrazione compatibile con i propri interessi politici.

Nel complesso, l’immagine che ne esce è di un Paese nel quale la guerra è diventata una sorta di nuova routine, un principio organizzativo della vita pubblica che fonda il proprio nuovo contratto sociale sullo sforzo bellico. Ciò è diverso dall’approccio inizialmente adottato dal Cremlino, che dipingeva “l’operazione speciale” come qualcosa di lontano, un equivalente russo di quello che la guerra in Afghanistan o in Iraq è stato per l’Occidente: un tema importante, ma che in ultima analisi non tocca la quotidianità domestica.

Che la guerra in Ucraina abbia assunto una dimensione più totalizzante nella retorica governativa non significa però che il regime abbia adottato la linea del «lacrime e sangue», di un eroico scontro nel quale ognuno è chiamato a fare sacrifici. Il tono è piuttosto quello di una Guerra patriottica soft, con tutta la sua enfasi retorica ma nessuno dei suoi aspetti più drammatici. Non a caso, Putin è molto attento a sottolineare iniziative come un welfare espanso per gli operai delle fabbriche costrette a lavorare su tre turni.

Apatia e guerra totale
In generale, l’intera classe politica tende a rappresentare la guerra come un grande progetto politico nazionale che non avrà né costi per la collettività, né richiederà una presa di coscienza da parte del popolo (l’eccezione sono i rappresentati locali, che effettivamente si trovano a toccare con mano le conseguenze delle decisioni di Mosca). Decenni di apatia ideologica indotta dalle autorità per impedire la formazione di una base politica opposta a Putin non si possono cancellare in pochi mesi. Non esiste ad oggi un collante valoriale, sociale, partitico che permetterebbe di sostenere i contraccolpi di una guerra pesantemente sentita anche sul fronte domestico.

L’unico modo con cui il Cremlino può manovrare il pubblico in un conflitto a oltranza senza che il corpo sociale si sfaldi è presentare la guerra come un fatto esterno, come può essere una catastrofe naturale o una pandemia: qualcosa di astratto, sottaciuto nel quotidiano e confinato a una politica che il russo medio percepisce solamente come uno dei tanti spettacoli televisivi in onda in prima serata.

Presumibilmente, è per questo è che l’apparizione di sistemi antiaerei nelle città sia stato accolto con tanta irritazione. Sono dimostrazioni tangibili che il conflitto è qualcosa di concreto, che ormai pervade la vita pubblica del Paese e che lentamente ne avvelena la società. È possibile che questo impedirà alla Russia di prendere decisioni improvvise per quel che riguarda la mobilitazione, al netto di eventi catastrofici come la liberazione di Kharkiv l’anno scorso. Il governo continuerà ad alzare gradualmente la temperatura dell’acqua nel quale languisce la società russa, dissolvendo progressivamente la pace civile fino al giorno in cui la Russia si sveglierà nell’acqua bollente di una guerra totale.