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Le confessioni di un'influencer pentita (che avreste sempre voluto sapere)

Il libro

Nel 2014 Federica Micoli ha fondato il blog "Closette", oggi è una digital strategist impegnata a "rendere i social un posto migliore". Il suo ultimo libro è un racconto spietato sul dietro le quinte della vita da influencer: "Il telefono era un prolungamento del mio braccio: era impensabile per me vivere senza che tutto venisse ripreso". Tra ipocrisie nascoste e figli che sono "un'impennata del business"

"I fatti raccontati in questo libro sono tutti accaduti". La premessa di Confessioni di un'influencer pentita lascia già intendere che non crederete ai vostri occhi: il motivo sono le pieghe assurde (e grottesche) che è capace di prendere la vita quando si mischiano vero e verosimile, ovvero persona e personaggio. Quello che, appunto, capita ogni giorno a troppe influencer. La seconda premessa è che il testo riguarda tutti, perché tratta "dinamiche di un mondo in cui bene o male ciascuno di noi è invischiato", continua la scrittrice Federica Micoli, sottolineando giustamente come ognuno contribuisca ormai a popolare almeno un social media. Tutti, "tranne mio marito e quelle poche persone che sono così sagge da starne abbastanza alla larga", precisa Micoli, un tempo influencer lei stessa ed oggi digital strategist, ovvero professionista che si occupa di sviluppare strategie di marketing digitale, "con la speranza di rendere la rete un mondo migliore". Ed è per questo che il volume - dal titolo pretenzioso ma capace di rispettare le aspettative - diventa fondamentale per capire il presente. 

Il suo blog Federica lo ha aperto nel 2014, si chiama Closette. Ad oggi è ancora online, ma l'ultimo aggiornamento risale ad alcuni anni fa. Il suo è dunque un racconto in prima persona - seppur romanzato - che appartiene all'epica di tutti coloro che ad un certo punto del proprio percorso hanno provato un "piano b", complici le nuove opportunità proposte dalla rete: manager di professione, aveva 34 anni quando ha cominciato a condividere su Internet consigli di lifestyle per passione, poi sono arrivati i primi regali dei brand intenzionati a farsi pubblicità, infine le collaborazioni retribuite. "Sembrava suonasse bene", ricorda oggi. Peccato che poi è cominciata quella che definisce una "discesa negli inferi", ovvero l'immersione in una quotidianità costantemente mediata dalla narrazione migliore da offrire al pubblico, in cui sono troppe le ipocrisie da sostenere, se non si è portati per farlo. Non a caso oggi il suo è uno sguardo spietato ed ironico, un dietro le quinte fatto di dettagli gustosi nella loro surrealtà: ci sono - tra le pagine - gli ex colleghi che ostentano autisti privati, ma poi non hanno soldi per pagarsi l'idraulico in casa; le influencer alle prese con guerre in cerca di visibilità; i tavoli che, agli eventi patinati, vengono divisi tra "chi ha la spunta blu e chi no"; l'opportunismo di chi sponsorizza il prosciutto pur avendo sfoggiato un'alimentazione vegana fino al giorno prima.

In America si comincia a parlare di meta-influencer, ovvero di quegli influencer che spiegano apertamente i meccanismi interni dei social, con annessi pericoli. Tu non sei più influencer, ma fai lo stesso.

"Una volta i social erano una landa da inventare, fatta di condivisione e persone capaci e appassionate. Oggi sono un far west governato dalla legge del più forte (e del più scorretto). Ci sono ancora persone che hanno talento e capacità, sono quelli della "vecchia guardia", ma purtroppo sono una piccola parte. Ad oggi la maggior parte degli influencer sono persone che hanno raggiunto la popolarità per casi fortuiti, magari perché reduci da una tramissione tv o perché taggati da qualcuno di grosso, oppure persone che semplicemente hanno visto in questo lavoro la possibilità di guadagni facili con zero competenze e talento: si sono ritrovati ad avere un'enorme seguito senza una dote specifica da comunicare, ma questo dà ugualmente loro la convinzione di avere un valore professionale.  È una sbagliatissima convinzione di successo: ad oggi sembra che il numero di follower certifica il tuo successo, quando invece c'è un mondo fuori".

Parli di Instagram come di un "social geneticamente modificato". Ad un certo punto, infatti, l'algoritmo non ha più incoraggiato il racconto dei propri interessi, bensì l'ostentazione del proprio privato. E così gli influencer si sono ritrovati in una vita divisa tra "persona" e "personaggio". Con quali compromessi?

"Ci sono influencer che hanno contenuti così validi da non aver bisogno di scendere a compromessi, ma sono in minoranza. La maggior parte di loro ha dato invece la propria vita in pasto agli utenti, senza rendersene conto: ci stavo cascando anche io. Oggi c'è gente che supera ogni limite della privacy in cambio della visibilità: comincia a fare video già al mattino in bagno, di fronte allo specchio. Per chi ci lavora è un meccanismo malato, ma è l'algoritmo ad assecondare il voyeurismo della gente. E, finché ci saranno persone disposte a mostrare i figli sul letto d'ospedale, la situazione non cambierà. Sono stati superati tutti i limiti: hai tuo figlio al pronto soccorso e il primo pensiero è fotografarlo con la flebo?".

Il telefono era un prolungamento del mio braccio: era impensabile per me vivere senza che tutto venisse ripreso.

Sovrapporre "persona" e "personaggio" significa anche mischiare vita privata e lavoro. Il rischio è scivolare nella dipendenza da lavoro: le otto ore canoniche non esistono più, un influencer non stacca mai. E, non a caso, tu parli di Fomo- Fear of missing out, una forma di ansia sociale che nasce dalla paura di essere disconnessi. Quali erano i tuoi sintomi?

"Il telefono era un prolungamento del mio braccio: era impensabile per me vivere senza che tutto venisse ripreso. Entri in un loop per cui 'se non l'hai postato non è mai esistito'. E per cui 'se non lo racconti hai perso una occasione'. Questa cosa non ti fa vivere serenamente neanche una cena fuori con tuo marito, perché il pensiero diventa quello di dover riprendere tutto, di fare la foto in macchina mentre vai al ristorante, i piatti a tavola e ancora  di farne banalmente un'altra mentre torni a casa. È una esasperazione di tutto. È qualcosa che accade anche quando succedono grossi eventi di cronaca: devi commentarlo, altrimenti non ti unisci alla massa che parla. Devi dire la tua a tutti i costi, anche senza esserti fatto un'opinione reale dell'accaduto o aver approfondito l'argomento. Quel che conta è esserci sempre. E parlare anche se non si ha nulla da dire"

Tu sei praticamente arrivata a scegliere le vacanze in base a quanto fossero "instagrammabili" i posti.

"Ed è una follia. Arrivano le ferie dopo un anno di lavoro con tuo marito e il tuo pensiero è trovare le location perfette per le foto, anzi le destinazioni... Ecco, vedi, ancora oggi tendo ad usare quella terminologia (sorride, ndr)... Tutto deve diventare instagrammabile. Non hai più il piacere di trascorrere del tempo con un'amica, perché al contempo devi far vedere che ci sei andato e che è stato tutto meravigliosamente stupendo. A me ha cominciato a pesare ogni aspetto di questo lavoro, ho cominciato ad avere attacchi d'ansia. Avevo paura di non avere più contenuti per il mio pubblico, di non sapere più di che cosa parlare. A seguito di questi attacchi dansia la decisione di iniziare un percorso di terapia".

L'obiettivo è fare una narrazione che sia il più entusiatamente possibile. Scrivi che "Un'appuntamento con una amica" diventava "Una chiacchierata divertentissima con quella pazza di Valentina!"

"Io non avevo voglia di essere sempre performante, simpatica, allegra. Mi svegliavo la mattina e volevo lanciare il telefono contro il muro, eppure erano questo il diktat sei social e dell'algoritmo: regola fondamentale, favorirlo il più possibile ".

Per alcune influencer la nascita di un figlio è un'impennata del business. Ci sono agenzie che, dopo che un bambino compie una certa età, non mostrano più interesse alle collaborazioni

Una situazione che logora te, ma anche chi ti sta vicino. Tu ringrazi spesso tuo marito Marco per il supporto.

"Lui è stato sempre molto comprensivo. Mi chiedeva in continuazione se fossi sicura della strada che avevo scelto, poiché aveva capito prima di me che mi ero intestardita su una cosa che non mi rappresentava. La mia fortuna è stata proprio la sua diffidenza rispetto ai social: voler rispettare la sua privacy mi ha aiutata a non superare certi limiti. Ad oggi vedo mariti, professionisti come avvocati, dentisti o imprenditori, che si mettono a fare balletti davanti allo specchio. Se penso a mio marito che fa balletti mi viene solo da ridere..."

Scrivi anche che c'è gente che si sposa per aumentare il numero delle collaborazioni...

"Assolutamente. Per alcune influencer la nascita di un figlio ha rappresentato un'impennata del business. Basta pensare che ci sono agenzie che, dopo che un bambino compie una certa età, non mostrano più interesse ad instaurare collaborazioni".

Il dibattito sullo "sharenting", ovvero la sovraesposizione di minori sui social, è accesissimo. Come intervenire?

"Vietando la sovraesposizione dei minori sui social e, soprattutto, il loro utilizzo nella pubblicità. È assurdo che in Italia non ci sia ancora una legislazione. Stiamo dando in pasto al pubblico la vita di una persona che non ha scelto di essere online. Bisogna ricordarsi sempre che su Internet non esiste oblio. Mi chiedo che cosa penseranno questi bambini quando, una volta compiuti 18 anni, si riguarderanno mentre sponsorizzavano un giocattolo o caramelle rigorosamente a favore di telecamera. Senza poi entrare nell'ambito penale: secondo recenti studi, i gruppi pedopornografici  utilizzano sopratutto materiale messo online dai genitori. Nemmeno questo riesce a fermare o quantomeno far riflettere”.

Tu scrivi che anche il concetto della "normalizzazione", molto diffuso sui social negli ultimi tempi, è in realtà una grande ipocrisia. Perché?

"Perché disinnesca qualsiasi livello di complessità. Mi spiego. Dire 'racconto la malattia di mio figlio per rompere un tabù' non è normalizzare, bensì banalizzare il tema ai fini dell'algoritmo. È restare ad un livello superficiale di discussione, è fermarsi al voyeurismo degli utenti. E non è così che si possono cambiare le cose, bisognerebbe anzi aprire tavoli di discussione, se davvero si vuole abbattere uno tabù".

Di recente, ad esempio, sono molto comuni i video in cui gli influencer "normalizzano" le proprie fragilità. In molti si riprendono mentre piangono: il video sfogo è un nuovo tipo di contenuto. Dobbiamo credere alle loro lacrime?

"No. Nel momento in cui tu stai consapevolmente facendo un video, hai la lucidità per farlo.  Il pianto è una reazione incontrollata e cozza con la lucidità di riprendersi, scrivere il testo e premere invio. Posso capire che, parlando, si abbia un momento di commozione, ma il pianto a favore di camera è un'altra cosa, è scientemente studiato e pianificato: in una parola, è strategia. Proprio di recente Selvaggia Lucarelli nel podcast “Il Sottosopra” ha approfondito questo tema".

Proprio dopo un pianto scoppiato all'improvviso, tu hai deciso di "dimetterti" da influencer. Non c'erano telefoni a riprenderti, eri sola ed eri al Festival di Venezia. Perchè?

"Perché mi sono guardata allo specchio e non mi sono più riconosciuta. Ricordo ancora questo pianto e la sensazione di voler tornare a casa mia. Non mi sentivo nel mio posto. Avevo appena finito il red carpet, ma volevo levarmi paillettes e trucco, sebbene consapevole che tutti desiderano vivere una sera da favola come quella. Ho capito che quel mondo non faceva per me".

C'è un momento in cui ci si convince della propria recita?

"Proprio perché il limite è molto sottile, il rischio c'è. È il sistema che ti porta a recitare, ma molte persone non se ne redono conto e questa diventa la loro normalità: il mio non è un attacco agli influencer, bensì un invito a fare un passo indietro, a riflettere e a non trasformarsi in marionette nelle mani di un social".

Nonostante io abbia sempre evitato di condividere la mia vita privata, un giorno ho commesso la leggerezza di taggarmi in un posto ed uno stalker mi ha seguito. Mi sono tutelata tramite avvocato.

Tra gli episodi più inquietanti, ricordi di essere stata seguita da uno stalker.  

"Nonostante io abbia sempre evitato di condividere la mia vita privata, un giorno ho commesso la leggerezza di taggarmi in un posto e questa persona mi ha seguito. Ho dovuto rivolgermi ad un avvocato per tutelarmi. Dobbiamo sempre tenere a mente che, nell'esatto momento in cui condividiamo un contenuto su Instagram o su un social in generale, ne perdiamo il controllo: quel post potrà arrivare a persone equilibrate ma anche a chi vede i social come una cloaca per le proprie frustrazioni. Questo naturalmente non giustifica determinate azioni o persone (ricordiamoci che lo stalking è un reato) ma è un tema da non sottovalutare è sicuramente da non prendere alla leggera".

Lo stalker di un influencer è diverso da quello di una celebrità vecchio stampo. Sei d'accordo?

"Più che diverso credo abbia strumenti e approccio diversi . Un tempo l'attore lo vedevi solo in tv ed era quindi in un certo senso inavvicinabile. I social hanno invece accorciato le distanze. Oggi l'influencer apre virtualmente le porte della propria casa h24 rischiando così di far entrare nel proprio salotto persone indesiderate. E ripeto, con questo non voglio colpevolizzare l’influencer ma invitare a una riflessione, sull’intero sistema e meccanismo social".

Altro pericolo sono le shitstorm. Racconti di persone che hanno sviluppato disturbi d'ansia, dopo averle vissute. Qual è il dietro le quinte che non conosciamo?  

"Conosco alcuni casi in cui persino i parenti degli influencer sono stati minacciati di morte. Nessuno può sapere quale reazione può avere una persona nel ricevere insulti: scatta il terrore di essere cancellato dai social, e dunque di non poter più lavorare, di non contare all'improvviso più nulla perché qualcuno ha deciso di puntare il dito contro un tuo errore, magari commesso in leggerezza. La gogna ce la siamo levata di mezzo secoli fa, così rischiamo di tornare indietro, fino alla giustizia personale".

Si dice che l'epoca degli influencer è finita, perché i follower sono diventati più smaliziati e dunque cominciano a comprendere certi meccanismi di pubblicità e di ricerca della risonanza mediatica fine a se stessa. Il futuro sono i content creator?

"Difficile dire oggi con certezza quale sarà il futuro dei social e delle figure professionali che vi ruotano attorno. Indubbiamente il content creator è una figura più adatta a questi tempi. Resisterà chi davvero ha qualcosa da dire e sa come farlo. Non basta più scattare due foto o fare un reel che segue le tendenze del momento per avere popolarità: la gente si sta stancando...".

I profili più autentici? Sono quelli che non hanno bisogno di esserci tutto il tempo, persino quando non hanno qualcosa da dire. Loro hanno davvero capito come funzionano i social: decidono di esserci solo quando possono portare valore.

Come possiamo, da utenti, riconoscere una comunicazione autentica e coerente?

"Bisogna fidarsi dei profili che non disturbano mai: sono quelli che non ci provocano frustrazione, disagio o fastidio. Quelli che non vogliono ostentare, che non hanno necessità di esserci tutto il tempo e anche quando non hanno nulla da dire. Loro hanno davvero capito come funzionano i social: decidono di esserci quando possono portare valore, ovvero intrattenimento o contenuti aspirazionali. E poi è opportuno far caso alle pubblicità..."

Ovvero?

"Mai fidarsi di chi fa un martellamento continuo di adv, finendo nell'incoerenza più totale della scelta dei brand: stanno svendendo la loro community. C'è chi un un giorno vende una crema super economica, descrivendola come un miracolo, e poi il giorno dopo ne propone una di lusso... e diffidare sempre chi omette o cerca di nascondere le collaborazioni al proprio pubblico".

E come riconoscere, invece, chi ha acquistato follower finti, al fine di aumentare i propri numeri?

"Come prima cosa consiglio di guardare alla qualità dei follower: se sono tutti profili stranieri (ma la lingua usata dell'influencer è italiana), magari senza foto profilo, due domande bisogna farsele. Poi si può far caso all'engagement, ovvero il tasso di coinvolgimento: ci sono app ad hoc per questo tipo di analisi. E ancora spesso si trovano commenti sotto i post che non c'entrano nulla con il contenuto, oppure prevalentemente commenti di altri influencer: in questi casi è evidente che non ci sia una community reale e che anzi sia probabile l'appartenenza a gruppi di scambio commenti".

Dicci i nomi di qualche influencer di cui apprezzi l'autenticità.

"Giorgia Crivello, Paolo Camilli,  Angelica Massera, Alice Basso, Irene Colzi, The Globbers. Questi ultimi sono due ottimi creator nel settore viaggi".

Oltre ai pericoli che si innescano in chi ci lavora, quali gli aspetti dei social che possono diventare tossici per l'utente? 

"Molte dinamiche messe in atto dagli algoritmi sono tossiche: fanno in modo di mostrarti contenuti che possano stuzzicare la tua curiosità, muovendosi sulla base delle tue azioni, che vengono registrate. Se tu passi anche solo qualche secondo in più su un determinato contenuto, Instagram registrerà questo tuo movimento mostrandoti contenuti simili. O ancora contenuti di influencer che hanno costruito la loro comunicazione unicamente sull'ostentazione di vite perfette e patinate. Capita di guardare con leggerezza o curiosità.  Un po' come quando si va dal parrucchiere e capita di trovare riviste di gossip: magari non si è soliti comprarle, ma avendole lì a portata di mano, perché non buttare un occhio a perdita di temo e per curiosità. Stessa cosa se ci pensiamo accade sui social: molto facile iniziare a scrollare e rimanerci incollati. Ed è spesso così che si innescano stati d'animo poco sani..."

Cioè?

"Invidia, frustrazione. Nessuno ne è immune. A tutti capita la giornata storta e a tutti può capitare un contenuto che fa arrabbiare o semplicemente infastidisce. Così come capita di entrare in competizione con persone che, nella vita reale, probabilmente non guarderemmo nemmeno. Questa continua ostentazione di vite perfette e impegnate, di lusso e successo, sta trasformando i social in un luogo dove performare sempre e comunque è ormai un diktat".

Tu sei una digital strategist, ovvero ti occupi di sviluppare ogni giorno strategie di marketing digitale. Nel libro, scrivi di  impegnarti "per rendere i social un posto migliore". Come?

"Provo a far capire alle persone che i social sono uno strumento del quale approfittare, non il contrario.  Il rischio per chi ha un'attività e vuole utilizzare i social per promuoversi è quello di cadere in queste trappole, di mettere in secondo piano il proprio progetto per rincorrere unicamente un’idea di successo legata a popolarità e numero di follower. I social devono essere uno dei tanti strumenti di lavoro, non il principale dal quale farsi risucchiare.  Il modo migliore per sfruttarli è vederli e utilizzarli in quest'ottica, ottimizzando la propria presenza qualitativamente (oltre ovviamente a ridurne l'uso all'essenziale).  Bisogna lavorare con attenzione, perché tutto è studiato per creare dipendenza: Instagram è basato su una economia di scala, più le persone sono connesse tanti più la piattaforma  può mostrare pubblicità e dunque guadagnare".

Provo a far capire alle persone che i social sono uno strumento del quale approfittare, non il contrario.

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