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Nuova falla nel gasdotto mentre Mosca domani dichiarerà «proprio» il Donbass

Dalla Svezia arriva la conferma che c’è una quarta falla nelle pipeline sottomarine del Nord Stream. La Guardia costiera l’ha scoperta nella zona economica esclusiva della Svezia. Le altre, invece, afferiscono alla zona danese. Ma non è questa la notizia. Piuttosto, è la certezza che si sia trattato di un «sabotaggio deliberato, sconsiderato e irresponsabile». A dichiararlo è la Nato, in una nota sottoscritta dalla stessa Svezia e dalla Finlandia, entrambe neo candidate a entrare quanto prima nell’Alleanza atlantica.

Pur se ancora ufficioso, un attentato di questo livello significa molte cose. Anzitutto, che il taglio del cordone ombelicale che legava l’Europa alla Russia è ormai completato. Certo, nella vita niente è duraturo. Ma tra la Federazione russa e l’Unione Europea la cesura è ormai netta e, anzi, si è sul piede di guerra. Il che induce a pensare che finché Vladimir Putin sarà al Cremlino, nessun accordo potrà essere onorato né le sanzioni alleggerite.

Secondo. Chi ha compiuto quel sofisticato sabotaggio ha interesse a un’Europa avvolta dal terrore e danni al Nord Stream permanenti. Il principale indiziato è ovviamente Mosca. Ma alcuni puntano il dito anche sugli Stati Uniti.

A sospettare che ci sia la mano di Mosca, sono alti funzionari dell’intelligence europea, che hanno riferito ai rispettivi governi come lunedì e martedì navi di supporto della Marina russa siano state intercettate al largo dell’Isola di Bornholm, in prossimità delle falle. Ma perché mai la Russia dovrebbe sabotare l’unica ragione che lega economicamente l’Europa al territorio russo? Può una mono-economia come quella russa, che si regge esclusivamente sull’export di idrocarburi, mettere a rischio miliardi di dollari e compromettere la vendita del gas, pur di terrorizzare l’Unione europea?

Colpa di Mosca o di Washington?

L’attacco a Nord Stream ha generato insicurezza e panico sui listini energetici europei e il mercato ha visto schizzare nuovamente il prezzo del gas. Da qui l’ipotesi di un azzardo di Putin, che può essere così sintetizzata: se 450 milioni di cittadini restano al freddo quest’inverno e le loro bollette vanno alle stelle, prima o poi i governi Ue dovranno negoziare una resa o, quantomeno, fare concessioni. A ciò si aggiunge un avvertimento «mafioso»: possiamo colpirvi quando e dove vogliamo. Ma un simile ragionamento è degno più di un pokerista texano che non di un abile giocatore di scacchi, che in genere si porta già due mosse avanti.

A meno che non si voglia credere che il Cremlino si sia già arreso all’idea che l’Unione non comprerà più il gas siberiano, preferendo il prodotto liquido americano, e che non resta altro se non rivolgersi ad altri mercati, Cina in primis. Questo significherebbe, però, che non c’è futuro nelle relazioni tra Bruxelles e Mosca. E neanche tra Mosca e Berlino: la distruzione di Nord Stream, infatti, rende irreversibile il processo di uscita dalla dipendenza dal gas russo e spinge la Germania definitivamente tra le braccia di Washington.

L’altra ipotesi, ancor più suggestiva, è che gli Stati Uniti o i loro alleati abbiano acconsentito a minare il gasdotto più importante d’Europa solo per favorire le esportazioni di gas liquefatto americane e legare così «definitivamente» le due sponde dell’Oceano Atlantico. Per quanto il ragionamento possa filare in teoria, è però al tempo stesso ridicolo: significherebbe che i servizi segreti europei hanno messo in piedi volontariamente un atto terroristico, al fine di addossare la colpa al nemico, favorendo neanche se stessi ma l’alleato di Washington.

Un’operazione di false flag, dunque, che vedrebbe l’Europa completamente sotto il ricatto americano, disposta a sacrificare un’infrastruttura chiave pur di accontentare il suo «benefattore». Questo scenario, tanto suggestivo quanto improbabile, fa il pari con chi ritiene che gli attentati alle Torri Gemelle siano opera del governo americano. Un conto, infatti, sono i favoritismi e le concessioni che l’Europa è abituata a fare nei confronti di Washington, un altro le ingerenze esterne e gli auto-attentati. Senza considerare il disastro ecologico potenziale: diversamente da quanto ritenuto inizialmente, si temono gravi conseguenze per il clima e l’inquinamento del mare. Davvero un governo euro-atlantico arriverebbe a tanto?

L’operazione di intelligence

Una sola cosa è certa: poiché i sistemi svedesi hanno captato almeno tre esplosioni nel fondale marino (pari a circa 2,3 gradi della scala Richter, a 80 metri di profondità), questo rivela quanto ardita sia stata l’impresa. Un’operazione d’intelligence che non può che essere militare, a lungo pianificata e portata a termine da squadre d’élite che dispongono di una tecnologia avanzata. Mini-sottomarini? Droni kamikaze? Missili subacquei?

Fonti britanniche del Times – che, come ovvio, imputano a Mosca la responsabilità – considerano probabile l’azione di droni subacquei dotati di cariche esplosive. «Potrebbero essere stati lì per mesi» prima di essere innescati da remoto, sostengono. Chi è in grado di compiere una simile operazione? Oltre ad americani e inglesi, solo tedeschi e russi.

Finora, a giocare con i tubi e i destini energetici europei era stato solo il Cremlino, con Vladimir Putin intento ad aprire e chiudere il rubinetto a suo piacimento. Al punto da fare lo smargiasso di fronte al leader cinese Xi Jinping: «Se [gli europei] sono così disperati, togliessero le sanzioni sul Nord Stream 2. Si tratta di 55 miliardi di metri cubi all’anno, basta premere un bottone ed è tutto» ha dichiarato appena due settimane fa a Samarcanda.

Ora, se è vero che Putin sembra il primo a voler ripristinare le esportazioni di gas, è anche la stessa persona che minaccia di usare l’arma nucleare contro l’Europa un giorno sì e l’altro pure. Dunque, un soggetto non proprio attendibile né coscienzioso. Fino a che punto il presidente russo è disposto a osare pur di non perdere la guerra?

Come va la guerra in Ucraina?

Una prima risposta arriva dal fronte ucraino, con il Cremlino che si appresta al riconoscimento ufficiale delle zone occupate militarmente. Domani alle 15, ora locale, Vladimir Putin in persona officerà alla cerimonia di firma dei trattati sull’annessione di quattro nuovi territori alla Russia. Sulla Piazza Rossa di Mosca è già pronto un palco con le scritte: «Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson, Russia, insieme per sempre».

Ma se è vero che ampie porzioni di quelle regioni sono attualmente in mano ai soldati russi, è altrettanto vero che Kiev continua a guadagnare terreno, seppure la sua avanzata al Sud sia molto meno efficace della controffensiva cui abbiamo assistito nel settore orientale. Dove invece il comando ucraino sta consolidando i successi e, intorno a Lyman, sinora ha respinto ogni tentativo di contrattacco russo.

A Kherson, invece, obiettivo principe delle manovre ucraine, le opposte trincee sono oggetto di pesanti bombardamenti, e ciò penalizza l’azione favorendo lenti riposizionamenti dall’una e dall’altra parte. È il ritorno alla guerra di attrito, insomma, con perdite significative da ambo le parti. Mosca qui ha appena mobilitato 10 mila soldati e conta di riprendere l’iniziativa o, quantomeno, di impedire al nemico di riprendere la città di Kherson, testa di ponte per un’ipotetica avanzata ucraina verso la riconquista della Crimea.

Kiev attende fiduciosa l’arrivo di nuove forniture militari (come i miracolosi sistemi missilistici Himars), mentre Mosca migliaia di riservisti per rimpolpare le difese. Il che prelude a un altro bagno di sangue, senza che vi sia l’ombra di un negoziato o s’intraveda la fine della guerra. L’unica certezza sono le sanzioni: non un passo indietro da parte dell’Occidente. Anzi, uno in avanti sui metalli, di cui il Paese è uno dei principali produttori, con alluminio, nichel e rame russi nel mirino.