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Orbán che teme gli taglino i fondi, ma l’Europa può fidarsi delle sue promesse?

È una relazione tossica. Ogni volta il primo ministro ungherese Viktor Orbán promette di cambiare, ma fino a quando l’Europa continuerà a credergli? In ballo, oggi, ci sono 7,5 miliardi di euro: la Commissione minaccia di congelarli per le violazioni allo stato di diritto, Budapest si impegna alle riforme perché ha bisogno di liquidità. Il Consiglio ha tempo fino al 18 ottobre per un verdetto che può slittare di due mesi. L’Europarlamento chiede di evitare rinvii, i sovranisti sperano nel soccorso da destra di Giorgia Meloni.

La vittoria della coalizione guidata Fratelli d’Italia alle elezioni è stata festeggiata dai populisti del continente. In lei spera proprio Orbán. «Ha investito nel suo rapporto con Meloni moltissimo negli ultimi anni, anche quando il partito era ancora lontano dal potere» ha spiegato a Balkan Insight Daniel Bartha, presidente del Centre for Euro-Atlantic Integration and Democracy di Budapest. Il rapporto tra di loro, secondo gli analisti, è più stretto di quello coltivato, a suo tempo, con Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.

L’Ungheria, intanto, si è opposta a nuove sanzioni sull’industria nucleare russa. «Non sosterremo mai misure che mettano a repentaglio la sicurezza delle nostre forniture di energia» ha detto il ministro degli Esteri, Peter Szijjarto. In Parlamento, invece, è stato il premier a paragonare le sanzioni a «spararsi da soli sui piedi». A Budapest, insieme agli omologhi di Austria e Serbia, quanto resta del Gruppo di Visegrád ha rilanciato il contrasto duro all’immigrazione sulla rotta balcanica.

È in questa pattuglia di Paesi che vuole riposizionarsi Meloni? Alcuni media ungheresi in questi giorni hanno ripreso un articolo di Breitbart, faro dei trumpiani e dell’alt-right americana, sul futuribile asse Roma-Budapest. Nel dibattito a Strasburgo, per la maggioranza che si insedierà a Palazzo Chigi, è intervenuto il leghista Paolo Borchia. Ha definito la strategia della Commissione una «pistola puntata ai governi meno allineati ai desideri di Bruxelles». Gli stessi toni degli eurodeputati di Fidesz e di Alternative für Deutschland.

Non si è votato, perché a farlo sarà – a maggioranza qualificata – il Consiglio europeo. Il commissario europeo al Bilancio, Johannes Hahn ha assicurato alla plenaria che verranno rispettate le scadenze. I parlamentari ungheresi dell’opposizione, tra cui Katalin Cseh (Renew Europe), hanno proposto di non tagliare gli stanziamenti, di cui la comunità ha bisogno, ma di assegnarli a scuole, ospedali, enti e amministrazioni locali, slegati dalla cleptocrazia del governo centrale.

Budapest ha iniziato a muoversi, anche se spera nelle astensioni al Consiglio (il prossimo comincia domani a Praga ma ha altre priorità). Sulla carta il pacchetto di riforme – 17 in totale – che Orbán sta spingendo nel suo Parlamento sembra rispondere alle richieste di Bruxelles. Bisognerà vedere, però, se non resteranno di facciata. Nell’immediato Budapest non può permettersi di perdere miliardi che valgono il 5% del suo prodotto interno lordo.

Incassato l’assegno, saranno rispettati gli impegni? Le misure anticorruzione passano, un pacchetto alla volta, grazie allo strapotere di Fidesz in aula. Tra quelle già approvate, c’è un emendamento al Codice penale per consentire di riaprire i casi di malaffare nella gestione dei beni pubblici quando si chiudono senza imputati. I cittadini potranno di rivolgersi direttamente ai tribunali per fare segnalazioni. Andrà ridotto il numero di bandi per assegnare fondi europei che finiscono con un solo partecipante, cioè con un esito già deciso.

Uno dei punti principali è la nascita di un’Autorità indipendente. Con poteri limitati, però, soprattutto di prevenzione. Non potrà avviare indagini, ma dovrà passare dalla giustizia ordinaria, che è in mano all’esecutivo. Il presidente di questo organo sarà anche a capo di una task force, incaricata di stilare un rapporto ogni anno. Ne faranno parte organizzazioni non governative ed esperti fuori dalla politica: la percentuale fissata per questa «quota civica» è del 50% dei componenti, il resto rischia di essere di nomina orbaniana.

Mentre finge di assecondare i vertici dell’Ue, il premier li contesta a ogni dichiarazione pubblica. La sua autodifesa – l’Ungheria non ha problemi di corruzione, non più degli altri Stati membri – è solo propaganda. L’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) ha certificato irregolarità nel 4% della spesa del denaro comunitario tra il 2015-2019: è il peggior dato tra i Ventisette. Anni di inchieste, in patria silenziate dal controllo sull’informazione, hanno documentato come quei soldi venissero distorti verso familiari e alleati politici di Orbán.

Alla vigilia della plenaria di ottobre, è arrivata un’apertura del commissario Hahn. I provvedimenti, ha detto, vanno nella direzione giusta. Lo ha confermato in aula, parlando di «impegno costruttivo, se verrà portato a termine». Diversi eurodeputati gli hanno fatto notare quella che, quando si tratta con Orbán, non è un’ovvietà: i presunti progressi andranno monitorati. Bruxelles non si può accontentare delle rassicurazioni, anche se inserite in una legislazione che Fidesz può ignorare o riscrivere.

Una visione più ottimistica potrebbe ritenere l’Ungheria «costretta» ad aumentare la trasparenza come un cedimento alle condizioni della Commissione. «Senza il meccanismo di condizionalità, nessuna di queste riforme sarebbe avvenuta» ha rivendicato Hahn. È vero, ma i precedenti storici non sono incoraggianti. Risale al 2013 il «rapporto Tavares», dal nome dell’estensore, in cui erano messi neri su bianco i pericoli per la tenuta della democrazia, il pluralismo dei media e l’indipendenza della magistratura. È rimasto inascoltato e, cinque anni dopo, l’Ue ha attivato l’«articolo 7» per le violazioni di Budapest.

Da allora, nonostante i richiami e l’uscita di Fidesz dal Partito popolare europeo, le cose sono peggiorate. Oggi l’Europarlamento, non a torto, ritiene l’inazione europea corresponsabile del «crollo della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali, trasformando il Paese in un regime ibrido di autocrazia elettorale». Rispetto al passato, l’economia fatica, come tutta quella mondiale, a causa di una guerra scatenata da una Russia che Orbán si affanna a compiacere, e i fondi europei sono necessari come non mai a puntellare il bilancio statale.

Sarà abbastanza? Secondo l’ultimo sondaggio Eurobarometro, diffuso quest’estate, il 61% dei cittadini ungheresi è soddisfatto della risposta europea al conflitto. È una cifra più alta della media tra i 27 Stati membri (il 57%). Ma sono ancora più convinti dalle ricette del proprio governo, promosse dal 69% degli intervistati. Su questa apparente contraddizione si regge la democratura di Orbán, che dipende dai soldi di Bruxelles, e li spende per comprarsi consenso, mentre continua a fare il gioco del Cremlino.