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Parigi, Francia in subbuglio, Macron forza sulle pensioni, scatena il caos, faro sulla crisi costituzionale

Parigi, Francia in subbuglio, Macron forza sulle pensioni, scatena il caos, faro sulla crisi costituzionale, un Paese quasi ingovernabile

Parigi, Francia in subbuglio, Macron forza sulle pensioni, scatena il caosParigi, Francia in subbuglio, Macron forza sulle pensioni, scatena il caos
Parigi, Francia in subbuglio, Macron forza sulle pensioni, scatena il caosParigi, Francia in subbuglio, Macron forza sulle pensioni, scatena il caos

Parigi, Francia in subbuglio, Macron forza sulle pensioni, scatena il caos

Parigi- Francia in subbuglio. Scricchiola qualcosa nel cuore del sistema istituzionale francese.

La battaglia politico-sindacale sull’ennesima riforma delle pensioni, lo scontro tra un presidente isolato e un paese in perenne ebollizione sono certo importanti e torneremo a parlarne nei prossimi giorni. Ma la crisi aperta dalle decisione di far approvare il disegno di legge con l’articolo 49.3 della costituzione, che obbliga le opposizioni a trovare una improbabile maggioranza assoluta per sfiduciare il governo, è molto più profonda. Conosceremo presto l’esito del voto. Ma che esso sia favorevole o contrario all’esecutivo, tutta la vicenda rivela la progressiva disgregazione del mondo politico francese e le crepe sempre più evidenti della democrazia rappresentativa.

   La crisi di questi giorni, con gli scontri in piazza (per ora contenuti) e l’immagine di un parlamento allo sbando, ha radici ben più profonde che il passaggio dell’età pensionabile da 62 a 64 anni. Dimostra infatti la paralisi di un sistema e l’incapacità delle forze politiche di reagire in maniera razionale a una situazione che rischia di sfuggire di mano a tutti.

   La Quinta Repubblica è nata nel 1958, quando la Francia era impelagata nella guerra d’Algeria. Venne concepita su misura per il generale de Gaulle, che nel 1962 aggiunse all’architettura costituzionale, già di per sé verticistica, l’elezione diretta del capo dello Stato. Dal 1875, il presidente della Repubblica era eletto per sette anni (l’Italia ha copiato questo schema), sia pur con molti minori poteri. Nella Quinta Repubblica, il peso preponderante del primo cittadino è stato irrobustito anche con la differenza di durata tra il mandato presidenziale e quello parlamentare, limitato a cinque anni. Questa struttura ha funzionato alla perfezione sotto de Gaulle e i suoi successori, fino a Jacques Chirac : quando un presidente ha perso le elezioni politiche e si è trovato a dover coabitare per un periodo più o meno lungo con un governo di segno politico avverso, tutto è filato liscio. La riforma del 2 ottobre 2000 ha cambiato tutto.

   Quel giorno, per una serie di calcoli politici meschini, perlomeno visti con il senno di poi, il mandato presidenziale è stato portato a cinque anni e l’elezione dell’Assemblea Nazionale programmata subito dopo quella del capo dello Stato. Poche voci si levarono contro quella riforma. Eppure, la riduzione del mandato presidenziale ha distrutto un pilastro della Quinta Repubblica. L’inquilino dell’Eliseo si è creduto più forte, ma la cultura del dialogo è completamente scomparsa. In un paese tradizionalmente poco incline al negoziato (tra forze politiche opposte, tra le parti sociali, tra i diversi apparati dello Stato) l’introduzione del quinquennio ha esacerbato le tensioni. Non a caso fino al 2022 nessun presidente è stato rieletto : Chirac, dopo dodici anni al potere, non poteva che ritirarsi, Nicolas Sarkozy è stato seccamente battuto, François Hollande non si è nemmeno ricandidato. Solo Emmanuel Macron è stato confermato l’anno scorso per un secondo e ultimo mandato. Una vittoria conquistata solo per la paura di vedere Marine Le Pen arrivare ai vertici dello Stato. E una vittoria zoppa : nel giugno scorso, gli elettori hanno dato al partito di Macron solo la maggioranza relativa. E il sistema si è bloccato.

   In primo luogo, perché l’arma dello scioglimento dell’Assemblea Nazionale è molto più spuntata per un presidente con un mandato di cinque anni. In secondo luogo, perché l’esplosione dei partiti tradizionali, provocata dallo stesso Macron, ha ridotto il parlamento a un’arena destinata più alle risse che alle discussioni. Tra il 1988 e il 1993, i governi di François Mitterrand ebbero a disposizione solo una maggioranza relativa, ma le opposizioni non erano sorde a qualsiasi negoziato e il governo poteva utilizzare a piacere il ricorso al 49.3, cioè la non sfiducia. Oggi, l’articolo 49.3, in seguito a una riforma costituzionale del 2008, può essere utilizzato con molti limiti, le opposizioni non sono più disposte ai compromessi, considerati come compromissioni. E le ambizioni dei tanti che sognano di rimpiazzare Macron, compresi i suoi fedeli, rendono ingovernabili anche gruppi parlamentari con poche decine di deputati.

   Dopo la battaglia sulle pensioni, è probabile che Macron non riesca più a far passare nessun grande disegno di legge. E non potrà nemmeno sciogliere il parlamento, almeno nell’immediato, dato che sarebbe sicuro di non conquistare la maggioranza assoluta. Siamo insomma all’impasse istituzionale. Non è possibile immaginare un presidente e il suo governo ridotti alla gestione degli affari correnti per quattro anni, ma non si vedono nemmeno le soluzioni. In passato, poche voci si erano levate per cambiare la costituzione, ma in maniera diversa : lasciare il mandato a sette anni e vietare la rielezione del presidente. Un’idea che oggi è probabilmente superata. E in giro non ci sono grandi proposte per rivitalizzare un sistema che comincia seriamente a mostrare un’usura insospettabile appena pochi anni fa.