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Robbie Williams: «Oggi non potrei più baciare con la lingua una fan: sarei cancellato»

Robbie Williams è sdraiato sul letto a petto nudo. «Sono a Ibiza in vacanza», racconta con un sorriso che risplende bianchissimo dall’inquadratura della videochiamata mentre sistema un cuscino dietro la testa. Non capita tutti i giorni di intervistare popstar mondiali stese su un materasso, viene da chiedersi se questa sia la norma con Robbie, sempre così rilassato, così eccentrico, così a suo agio nel ruolo dell’istrione con la faccia da schiaffi. Ma la scena si trasforma subito in una specie di seduta di psicoterapia da remoto, con lui che spiega di essersi chiuso in camera non solo per sfuggire al caos della festa di compleanno di Colette, la terzogenita che compie quattro anni, ma anche perché ci sono cose da cui è meglio che stia sempre lontano. «Cerco di non avvicinarmi alla torta e alla pizza», racconta. È a dieta? La risposta spiazza per sincerità: «La mia natura mi spinge ad abbandonarmi a ciò che mi fa male, sviluppo dipendenze per qualsiasi cosa, non riesco mai a contenermi. Devo quindi stare sempre all’erta perché se mi concedo di essere la persona che la mia testa e la mia mente vogliono che io sia, diventerei enorme. A tal punto che servirebbe una gru per farmi alzare dalla poltrona».

Robbie e le dipendenze, Robbie e l’autodistruzione: un capitolo corposo della storia di questo ragazzo di 48 anni. In Reveal, autobiografia del 2017, c’è un episodio che dice molto dei suoi demoni e della necessità di esorcizzarli rendendo pubblico il privato: si racconta di lui che, dopo aver mischiato cocaina con un antipsicotico, giace in una pozza di sangue, da solo in bagno, e pensa: «Sto morendo e non mi importa». Robbie e Ayda (Field) è invece il capitolo che segna la rinascita: l’amore cominciato quindici anni fa, il matrimonio, i quattro figli, la fine delle dipendenze e degli eccessi. Robbie e i Take That è la parte che racchiude un caposaldo della cultura pop degli anni Novanta, entrato nel mito anche per via proprio del suo abbandono: chi c’era forse ricorderà che, nel 1996, nel Regno Unito venne istituita una linea telefonica di supporto alle fan disperate per lo scioglimento della band. Oggi Robbie festeggia i 25 anni della sua carriera solista, con XXV, il nuovo album che contiene tutte le sue hit in versione orchestrale registrate con la Metropole Orkest.

Ricorda il momento in cui decise di lasciare i Take That per diventare solista?


«Ricordo che mi sentivo a pezzi. Ero nel pieno di un crollo nervoso, il primo di una lunga serie, e non vedevo alternative. Dovevo lasciare una situazione in cui mi sentivo drammaticamente insicuro, non curato, non amato, non apprezzato. Ero appena diventato alcolista e tossicodipendente. Tutti elementi che mi dicevano che ero in pericolo e dovevo scappare».

I Take That nel 1992.

I Take That nel 1992.

Tim Roney/Getty Images

Che cosa le faceva pensare che fuori dalla band sarebbe stato meglio?
«In realtà credevo che sarei diventato subito la persona che sono ora. Ma se avessi saputo ciò che so oggi, non me ne sarei andato così presto».

E che cosa sa oggi?


«Che era altamente improbabile risolvere tutto così, con quel gesto. Per me gli anni Novanta sono stati un mix di diverse illusioni, tutte esaltanti. Ero anche molto impulsivo e mi piaceva scommettere sul futuro».

Ricordo quando abbandonò i Take That...


«Allora le chiedo scusa (sorride, ndr)».

Ai tempi si diceva che lei voleva fare la primadonna e che litigava spesso con Gary Barlow.


«Nessuno si occupava di me. C’era solo una persona a essere considerata, ed era Gary. Gli altri erano soltanto i suoi ballerini. Se le cose fossero state diverse non avrei avuto bisogno di andarmene».

Gli altri Take That ce l’hanno ancora con lei?
«Senta, i Take That sono una famiglia e io sarò per sempre il fratello minore, con tutto ciò che questo significa. E cioè che sarò sempre l’elemento problematico e molesto, ma gli altri mi vorranno sempre bene e io anche».

Lei è quello che ha avuto più successo.


«Sono stato molto fortunato».

Sa che nel 1995 a Milano ci fu una manifestazione in piazza Duomo per protestare contro il suo abbandono?


«Veramente no, ero sempre ubriaco. Sapevo che succedevano delle cose, ma ero nel mezzo di un esaurimento nervoso, mi ricordo a malapena di come stavo».

La fama l’ha distrutta?


«Quel tipo di fama ha distrutto tutti i Take That. Io sono stato in rehab, Mark pure, Gary ha sofferto di depressione e a un certo punto non usciva più di casa, Jason ha lasciato il gruppo perché non ce la faceva più, Howard voleva suicidarsi quando la band si è sciolta».

Eravate ragazzini mandati allo sbaraglio? Sente che casa discografica e management hanno delle responsabilità?


«Nessuno nel nostro management aveva mai avuto a che fare con un fenomeno come i Take That. Nessuno è mai davvero pronto a gestire un tale livello di fama e follia, lo impari solo vivendolo. Non vorrei mai essere qualcuno che fa quel lavoro e non so come sia l’industria oggi per un diciassettenne, so solo che per sopravvivere in quella situazione devi avere intorno persone dotate di empatia».

Qual è il miglior ricordo della carriera?


«Non saprei dirlo, sento che il meglio deve ancora arrivare».

Uno dei momenti pubblici più famosi è quando nel 2003 fece salire una fan sul palco durante un concerto e la baciò appassionatamente. Come le venne in mente?


«Successe tutto sul momento, non fu premeditato. Vede, più che ogni altra cosa io mi considero un entertainer, mi viene naturale usare qualsiasi cosa per intrattenere gli altri. Negli anni Novanta, così come negli Ottanta, le popstar dovevano provocare ed essere controverse, le persone le guardavano con ammirazione e attraverso di loro vivevano qualcosa al di fuori dall’ordinario».

Non è più così?


«Adesso sarei cancellato se baciassi con la lingua una fan come quella volta. Un gesto spontaneo, un po’ dolce, un po’ ridicolo, senza ombre. No, non puoi più essere provocatorio, controcorrente, non c’è più la scintilla, devi solo conformarti alla grande massa di pensieri insipidi e incolori che ci invadono».

Oggi, nella sua nuova canzone Lost, canta: I lost my place in life, ho perso il mio posto nella vita. Quando è successo?


«In tutti quei momenti in cui non diamo ascolto alla nostra natura migliore per abbandonarci a comportamenti sconsiderati, nel mio caso si trattava di edonismo e farmaci. Ma fa tutto parte del ricco arazzo della vita».

Entra nella stanza e nell’inquadratura una bambina vestita da principessa con la faccia fresca di


truccabimbi: è Theodora, la figlia maggiore. «Papà, tagliamo la torta senza di te?», gli chiede. Robbie Williams le risponde che sta lavorando e lei esce. «Mi scusi tanto», dice.

Con i figli e la famiglia ha ritrovato il suo posto nella vita?


«Sì, ho trovato un senso, una ragione di vita, un motivo per funzionare. Mi piace molto dove mi trovo e lo stile di vita che ho, il mio lavoro e le opportunità che mi dà».

Com’è il suo stile di vita oggi?


«Sono un padre di famiglia, con Ayda e i bambini siamo sempre molto impegnati, viaggiamo tanto, ci spostiamo di continuo. Nella mia famiglia nessuno prima di me aveva avuto l’opportunità di vivere così, nel lusso e nella prosperità. Abbiamo tanti amici e conoscenti con cui passare il tempo. È una vita molto bella».

È ancora amico di Elton John?


«Non lo vedo da un po’, ma sì, è una persona a cui vorrò sempre molto bene. Tanti anni fa mi aveva aiutato o almeno ci aveva provato».

In che modo?


«Mi aveva mandato in rehab, ma non ero ancora pronto».

Oggi si vuole bene?


«Direi che ho fatto dei passi in avanti. Se prima l’odio per me stesso era dieci su dieci, oggi sono a tre. Non è più la cosa che governa la mia vita. Mi sento sempre un po’ a disagio, ma meglio di prima».

E sta insieme ad Ayda da 15 anni.


«Sono fortunato perché sto con la persona migliore con cui potrei stare, Ayda è così intelligente, simpatica, gentile, ha buon gusto, empatia, mi fa ridere, mi piace fisicamente, sono fiero di lei. Ho conosciuto così tante donne e nessuna regge il confronto con mia moglie».

Con quante donne è stato?


«Non ho mai tenuto il conto, diciamo più di cento».

Tra queste molte erano famose.


«Ayda dice che ogni volta che accendiamo la tv c’è una donna con cui io sono andato a letto, ed è vero. Per fortuna ha grande senso dell’umorismo, quello che è successo prima di incontrarci non le interessa».

E come si trova nel ruolo di papà oggi?


«È bellissimo. Mi piace così tanto, sento come se l’universo mi dicesse: ecco un livello di vita che non sapevi esistesse e ora che puoi sperimentare, non è fantastico che tu abbia scelto di farlo?».

Come spiegherà ai suoi figli il suo passato?


«Penso che, in questo mondo così veloce, quando saranno adolescenti la mia storia non suonerà così diversa da quella delle persone che conosceranno, saranno in contatto con milionari edonisti simili a com’ero io. Spero che sfuggiranno ai tentacoli della dipendenza, prego per questo. Ma penso anche che probabilmente non vorranno vivere in quel modo».

Che cosa glielo fa pensare?


«I miei figli hanno un padre e una madre, prima di tutto. Un padre e una madre che si amano tantissimo. Un padre e una madre che gli danno amore, gentilezza ed empatia».

Sanno che il papà è una popstar?


«Mio figlio Charlton (sette anni, ndr) pensa che io sia un calciatore».

Perché?


«Non so perché, ieri ha detto a una persona che io gioco nel Manchester United. La maggiore invece è affascinata dal fatto che io sia una popstar. Vuole fare la cantante».

Le piacerebbe se seguisse le sue orme?


«Sì, è un bellissimo lavoro, se lo vedi solo come un lavoro, è meglio che stare in ufficio».