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Scuola, crollano gli iscritti agli alberghieri: paghe basse e precariato spaventano i ragazzi

Pandemia, disillusioni e precariato fanno crollare gli iscritti negli istituti alberghieri. L’onda lunga delle trasmissioni televisive in cui chef stellati lasciano intravedere ruoli prestigiosi, retribuzioni generose e un lavoro pieno di soddisfazioni sembra proprio archiviata. E gli istituti alberghieri non attirano più i ragazzini della terza media come accadeva alcuni anni fa, quando l’indirizzo faceva il pieno ed era necessario aprire nuovi plessi ogni anno. Attorno al 2010 l'istituto più popoloso d'Italia era proprio un alberghiero: l'istituto Pietro Piazza di Palermo con quasi 3mila studenti.

A lanciare l’allarme sulla crisi del settore l’Osservatorio Ristorazione attraverso il rapporto 2022, presentato un paio di settimane fa. Parecchie le cause, spesso concomitanti. Piuttosto tortuosa la strada per uscire da una situazione che non dipende soltanto dalla scuola. I numeri parlano chiaro. Nel 2014/15, si sono iscritti 64.296 nuovi studenti che nel 2021/22 sono diventati 34.015: meno 47% in pochi anni. Nei dati dell’Osservatorio rientrano anche gli iscritti ai percorsi assicurati dalle regioni e delle scuole non statali. E i numeri delle sole scuole di stato confermano l’andamento.

Nel 2014/2015, gli iscritti in prima negli istituti alberghieri statali ammontavano a 47.204, nel 2022/2023 si stimano 25.375 iscritti: meno 46%. Prima della pandemia, nel 2019/2020, coloro che scelsero gli istituti alberghieri in uscita dalla scuola media furono 29mila e 400, circa 6mila in più del dopo Covid. Il calo dovuto al Covid è pari quindi al 20% circa. Il resto non è da ricercare altrove. Oggi, il Piazza di Palermo ha 2mila e 300 studenti. Il preside, Vito Pecoraro, avanza alcune ipotesi. “Anche noi abbiamo avuto il crollo delle iscrizioni. Ma non sono d’accordo – argomenta – che la colpa sia dei contratti capestro: ci accertiamo che le aziende che ci chiedono personale per Pcto o apprendistato rispettino i contratti. Da noi influisce molto il tasso di natalità e una forte emigrazione. C’è poi il discorso della formazione professionale regionale che avendo più risorse a disposizione attrae gli studenti con divise, tablet e altro gratis. Cose che noi non possiamo garantire e in più occorre comprare i libri di testo”.

È dopo la scuola che la situazione cambia. Tommaso Attura, 19 anni si è diplomato al Vincenzo Gioberti della Capitale la scorsa estate e già da quando frequentava il quarto anno lavora. Oggi è in forza presso un ristorante cittadino. Ma, nonostante la passione, la sua vita da lavoratore non è stata semplice. “Ho deciso sin dalla scuola media – racconta – di iscrivermi all’alberghiero. Ero molto determinato. Oggi lavoro in cucina e, grazie allo chef Franco Aurelio che ha creduto in me, sono specializzato nei secondi piatti”. Ma ammette tutte le difficoltà legate al lavoro che si è scelto. “Lavorare in questo settore è molto pesante. Ho iniziato in altri ristoranti che per 9 ore di lavoro al giorno mi pagavano 7/800 euro al mese. Ed è infatti durata poco. Oggi guadagno di più e mi accontento. Un ragazzo di vent’anni non può pretendere, senza molta esperienza, di guadagnare 2mila euro al mese”.

Luigi Valentini è a capo di Renaia, la Rete nazionale istituti alberghieri. “Durante la pandemia, il settore alberghiero e dell’enogastronomia è stato uno dei più penalizzati”. Ma per Valentini ci sono motivazioni più profonde e complesse alla base della crisi. “Per lavorare occorre una formazione adeguata: non si può pretendere che gli istituti professionali sfornino camerieri o aiuto cuochi. Noi ci occupiamo della formazione delle persone non dei professionisti. Per invertire il trend, dobbiamo capire meglio le esigenze del territorio, ma anche gli altri attori, enti locali, ministero dell’Istruzione e imprenditori, devono contribuire”. E ammette: “Anche le retribuzioni spesso non sono adeguate. C’è una giungla e in alcuni casi una sorta di sfruttamento”. Il turismo è il settore più importante per l’economia nazionale e, suggerisce, “una maggiore cooperazione tra tutti i principali attori del settore e investimenti più consistenti”. Altrimenti, non si intravede una via d’uscita.