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Romanico sardo, tra i santi bianconeri

È il faro, sacro, della Sardegna. Grigio scuro come il basalto, bianco come il calcare del Logudoro. Un campanile rimaneggiato, quello che annuncia la Santissima Trinità di Saccargia, che è la freccia della cristianità insulare: protesa verso i blu più saturi e mistici, ma conficcata nel verde aspro e arcano dell’antico giudicato.

Il sacrosanto emblema del romanico regionale (patinava pure le rubriche telefoniche e i pieghevoli pubblicitari) è solo uno dei sessanta edifici religiosi medioevali che costellano l’entroterra sardo. E che assieme nella parte settentrionale dell’isola, formano una curiosa Bibbia di pietra bianco-nera e rosa-trachite. Di influssi pisani, lucchesi e lombardi è meno bizantineggiante di quella che invece si snocciola nella parte meridionale della Sardegna. Concreta un romanico che, rispetto ai modelli del Continente, s’attenua in grazie e acquista in semplicità, diventa elementare ed essenziale, artigiano più che artistico. Sorprendente.

Del giudicato “nordico” del Logudoro, una delle quattro istituzioni territoriali e autogovernative che si formarono dopo la parentesi bizantina oscura e contrastata, è la chiesa di San Nicola a Ottana a marcarne i confini meridionali. Non a caso lo fa presentando nella valle del Tirso non la tipica simbiosi sardo-pisana concretata nelle fasce charoscurali evidenti nelle chiese più settentrionali, bensì una schietta decorazione spartita in tre ordini di arcature con incavi a losanga e con i fianchi sempre cinti e modellati da archetti di vago stampo toscano. È severa e solitaria come l’antichissimo paesaggio che la circonda: malinconico forse, ma singolare nella sua durezza.

Risalendo verso nord lungo la statale 128bis e passando per Bono, segnalata dalla modesta facciata romanico-pisana di San Michele, si accende un mare verde di colline boschive dove lo sguardo si perde in trasparenti lontananze. Con la coda dell’occhio, oltre Ozieri e all’incrocio con la nazionale 597, si scorge la sagoma di Sant’Antioco di Bisarcio.

Col campanile mozzato da un fulmine che vigila sul corpo eretto da maestranze pisane prima e poi borgognone, fu elevata sulla piana di Chilivani nella seconda metà del XII secolo congiunta a un palazzo episcopale. La splendida e “internazionale” facciata ha un triplice arco ricco di sculture ma è l’abside, con una successione di losanghe geometriche tagliate alla pisana e le finestre quadrate e strombate, a rompere i volumi massicci della struttura. Un elevato gioco di pieni e di vuoti elegante come il camino a forma di mitra che sovrasta il portico in facciata. Una manciata di chilometri a ovest ed ecco Santa Maria del Regno di Ardara (XI sec.), antica capitale del giudicato di Torres.

È considerata la più autoctona tra le chiese romaniche sarde per certi influssi islamico-catalani nei dettagli, lavica per il campanile a vela e la scura facciata di pietra lavica (a due intonazioni dello stesso colore) sagomata da modanature che la slanciano in cielo; mentre più a est (sulla N°597) l’impronta lombarda di Nostra Signora di Castro (fine XII sec.) a Oschiri affascina perché il campanile a vela bucato da due monofore, che è decisamente più possente di quello di Ardara, è però alleggerito dal timbro rosa pallido della trachite. L’impatto è lirico. Drammatiche invece le attigue rovine del castello di Castro e, sempre nei pressi, quelle dei nuraghi che peraltro sono onnipresenti nella Gallura e nel Logudoro.

È sempre l’arzigogolata statale N°132, che si snoda tra pascoli di pecore e vacche zittite dal vento, a condurre nel “cuore del romanico settentrionale”: a Codrongianus dove svetta la SS. Trinità di Saccargia e si acquatta in solitudine la spartana chiesa di San Michele di Salvenero (1110-30). Se la seconda è semplicissima e sfigurata dal restauro subito nel 1912, a esclusione delle tre pittoresche absidi a corsi bianchi e neri, la diruta abbazia di Saccargia conserva tutta la grazia del primitivo spartito architettonico pisano negli intagli e nelle tarsie che esplodono in un trionfo decorativo. Un po’ la policromia e un po’ l’effetto d’ombre nelle arcate, nei capitelli scavati e nelle cornici, fatto sta che Saccargia risulta la più scenografica tra le chiese sarde nonostante i restauri pesanti e i rifacimenti eseguiti all’inizio del XX secolo.

Le piccole pietre bianche e nere sistemate alla rinfusa, al posto di quelle grandi allora comunemente usate, la arruffano anche. È poi misteriosa, a cominciare dal nome: per alcuni deriva da “s’acca argia”, la mucca col pelo maculato scolpita in un capitello del protiro, per altri da “sa baccarza”, la vaccheria. Un vocabolo comunque legato al luogo: nel Medioevo era un podere ricco di terre da pascolo. Gonfio di santi invece il ciclo di affreschi romano-laziale dipinto nel XIII secolo all’interno dell’abside che rappresenta scene della vita e della Passione di Cristo, dall’Ultima Cena alla caduta negli Inferi.

Da Codrongianus un rettifilo (N°672) conduce a Pertugas e dunque, lungo la N°134, alla magnifica e laziale Deposizione lignea che un tempo campeggiava all’interno della romanica San Pietro dell’Immagini ma che oggi accoglie a braccia aperte (quelle del Cristo) nella parrocchiale di Bulzi. Dipinta nel XIII secolo, è magistrale come il movimento, un po’ romanico e un po’ pre-gotico, che scandisce la tripartita facciata di San Pietro delle Immagini appartenuta ai Benedettini di Montecassino.

Una spigolosa probiscide, quella della trachitica e bizzarra Roccia dell’Elefante elevata di fronte al nuraghe Paddaggiu, indica sulla strada N°134 che scivola verso il mare turchese di Castelsardo, la deviazione per Tergu. La chiesa di Santa Maria o Nostra Signora di Tergu (XIII sec.) è imperdibile, e degna della dispotica dominazione sul territorio dei monaci benedettini di Montecassino che qui esercitavano diritti su tutto: vassalli e valvassini, terre e saline. Un incubo insomma, per i locali.

Se gradevole è la facciata che alterna con eleganza formelle intarsiate a blocchi di trachite rossa e calcare chiarissimo, l’interno è tanto spoglio quanto ipnotico nella sua sobrietà che si scioglie solo nel gioco di travature e capriate lignee del soffitto. Un piccolo capolavoro degno del paesaggio marino che annuncia: quello di Cala Ostino e, più a ovest, delle calette di Tinnari, di Cala li Cossi e poi Capo Testa.

Cestineria, coltelli e ceramiche
L’entroterra sardo è una Mecca per l’artigianato. Nei pressi della chiesa di Santa Maria a Tergu e di Castelsardo l’intreccio di cesti a motivi astratti è di casa: l’artigianato sardo usa spesso schemi geometrici e assai poco figurativi. Tradizionalmente eseguita da maestranze femminili, la cesteria utilizza giunchi, fieno, asfodeli, e raffia ma nell’Anglona, e cioè a Tergu e Castelsardo, lavorano soprattutto la palma nana e la raffia elaborando forse i prodotti più eleganti della regione. L’arte della ceramica storicamente fu invece appannaggio dei maschi. In genere abbastanza nude, prive di decorazioni esasperate, presenta forme armoniose, pulite. Alle province di Nuoro e di Sassari (abbazia di Saccargia, San Michele di Salvenero) si deve riconoscere l’impulso più innovativo. Il capoluogo di Sassari poi, ospita biennalmente la più importante e completa rassegna dell’artigianato sardo.

In un mondo, quello dell’entroterra, ancora agro-pastorale, la lavorazione artigianale dei metalli non può mancare: dai campanacci ai coltelli ai ferri battuti. La produzione di coltelli, più sviluppata nei centri meridionali come Arbus e Guspini, è viva anche nel centro e nel nuorese (chiesa di San Nicola di Ottana) soprattutto a Dorgali.

INFO

- sardegna.com

- sardegnaturismo.it

- sardiniatravel.it

ARRIVARE
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DORMIRE
Romantico e a soli 8 km da Saccargia il piccolo ma elegante Tuffudesu non di dimentica.

Girando il romanico settentrionale, logistico è soggiornare e gustare le specialità locali negli agriturismi che costellano il territorio.

Tra i tanti, a Tergu il Satta è a soli cinque chilometri dal mare e a due passi dalla chiesa di Santa Maria. Vicino al bel castello di Eleonora d’Arborea, sempre nell’antico Logudoro il Crabolu di Burgos. È nel cuore del paese ma ha una vista panoramica su una foresta. Vicino alla chiesa di San Nicola a Ottana, l’attrezzata azienda agrituristica Palai sorge su un declivio di trecento ettari ai margini del borgo di Ollolai.

MANGIARE
La gastronomia logudorese è fantasiosa (quanto i nomi delle pietanze), saporita e varia.

I Malloreddus, letteralmente “piccoli tori” sono minuscoli gnocchi rigati di semola e zafferano che nel Logudoro prendono il nome di “maccarones caidos” e nel sassarese di “cicciones”: vengono serviti con salsa di pomodoro o sugo di carne e cosparsi di pecorino grattato.

Nella cucina dell’entroterra, cucina di pastori, abbondante è la preparazione della pecora stufata, del gumpagatu (pecorino invermato per troppo caglio), della cozzula (pane a ciambella), dei culurzones (agnolotti ripieni di carne o cacio o ricotta) che sono poi i culingiones cagliaritani, della favata (minestra di fave secche ammollate, lardo, salsiccia, finocchietto selvatico, puntine di maiale), puddighinus a pienu (pollastrini farciti con le proprie frattaglie, uova, pane grattugiato, altte o panna, pomodori secchi).

Non mancano i dolci: canestrelli, casadinas o pàrdulas (canestrelli ripieni di formaggio fresco allo zafferano), zippulas (frittelle di farina lievitata profumate all’anice o al fior d’arancia) e suspirus (mandorle spellate e pestate passate in casseruola assieme a zucchero e poi glassate). Tra i vini autoctoni primeggia il rosso del logudoro di Ittiri. A Ozieri tipico il liquore di timo.

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