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Udine, nove pietre di inciampo in memoria dei poliziotti deportati nei campi di sterminio

Furono tutti d’accordo, alla piccola questura di Udine, nel rifiutare quegli ordini criminali e inumani, e perciò gli ebrei e i partigiani anziché perseguitarli e consegnarlo ai nazisti, li aiutavano sottobanco. Avevano tra i 29 e i 42 anni, portavano la divisa di guardia, vicebrigadiere, vicecommissario, commissario di polizia. Le SS li arrestarono quasi tutti, su soffiata di un fascista repubblichino di lì: qualcuno scappò in montagna e si unì ai partigiani, altri aspettarono l’arrivo di un processo che non arrivò mai; per imperscrutabili motivi, alla fine, i nazisti decisero che in dieci finissero nei lager, da cui solo uno, miracolosamente, tornò indietro. Succedeva nell’estate del 1944. Ma è una storia, quella dei poliziotti deportati di Udine, che praticamente non è stata mai raccontata, e che però finalmente ha avuto l’onore che merita da parte di un Capo della polizia, il prefetto Lamberto Giannini, andato personalmente a sistemare nove piccole pietre d’inciampo davanti all’edificio che fungeva da questura. «Ritengo – dirà alla cerimonia, Giannini – che questi eventi non siano un semplice ricordo: per noi della polizia e delle forze dell’ordine, i caduti sono la nostra carne viva. Specialmente nei momenti difficili, rappresentano la nostra stella polare. Quando è difficile prendere delle decisioni e affrontare sacrifici, abbiamo questi esempi luminosi che ci guidano e cerchiamo di avvicinarci a loro».

Accadde dunque a Udine. Subito dopo l’8 settembre 1943, il Friuli era stato occupato militarmente dalle truppe naziste e la provincia di Udine (assieme a quelle di Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e parte di Lubiana) era stata annessa al Terzo Reich con il nome di Zona d’operazioni del Litorale adriatico. Era guidata dal governatore della Carinzia, sottratta al territorio della Repubblica Sociale Italiana. Come ricorda un libretto appena edito dalla Polizia di Stato, a cura di Anna Colombi, con il passare dei mesi in queste province la repressione tedesca divenne sempre più feroce. Già, perché chi era lì non si arrese all’invasore. Così c’erano rastrellamenti continui e scontri a fuoco con i primi nuclei di partigiani. I nazisti e i loro alleati repubblichini impazzirono di rabbia. Il 30 luglio 1944, forze tedesche circondarono la caserma dei carabinieri e della guardia di finanza di Cividale, disarmarono i presenti e li mandarono in campi di internamento. Stessa sorte toccò all’intera questura di Udine: furono arrestati più di 40 poliziotti, dal questore Luigi Cosenza in giù. Si scoprirà dopo la Liberazione che a denunciarli era stato un violento fascista di Udine, l’albergatore Manlio Tamburlini, già squadrista della prima ora, accorso nell’esercito repubblichino.

«Vengono immediatamente arrestati – si legge nella pubblicazione della polizia – i funzionari Filippo Accorinti, Mario Savino e Camillo Galli, mentre Antonino D’Angelo viene “prelevato” dalla propria abitazione. Il successivo 24 luglio, alle 16, sono arrestati anche il questore Luigi Cosenza, il vice questore Ernesto Galliano e i commissari Luigi Ruggiero e Giuseppe Sgroi. Nell’arco di una manciata di giorni, sono una quarantina i “sospetti” condotti in carcere». Di questi, in dieci finirono a Dachau.

«Questa storia come tante altre che in questo periodo stiamo rivedendo – commenta ancora il Capo della polizia, Giannini – è molto importante per conoscere un momento drammatico, di guerra. E adesso ne stiamo rivivendo uno nuovo. Questo deve ricordarci che certe cose sono state affrontate, si è tenuta la schiena dritta, si è arrivati all’estremo sacrificio, c’è stato chi ha saputo scegliere con chiarezza qual era la parte giusta, affrontando le estreme conseguenze».

Andò proprio così. A fronte di interrogatori durissimi, i poliziotti di Udine seppero tacere. Ma le SS avevano capito chi avevano di fronte. E non ebbero scrupoli a chiuderli in un vagone piombato. C’è un terrificante documento, scritto qualche anno dopo dall’unico sopravvissuto, il maresciallo Spartero Toschi, che ricostruì i fatti in una lettera alla mamma del vicecommissario Filippo Accorinti: «Fatti i primi accertamenti la SS tedesca, verso i primi del mese di agosto, effettuò una specie di “decimazione”, liberando i meno sospetti e raggruppando in carcere 12 elementi sui quali, secondo il criterio dei tedeschi, basandosi forse su lettere anonime, gravavano sospetti di attività anti nazifascista. Per essere preciso fra i 12 arrestati c’erano: il Questore Cosenza, il Capo di Gabinetto Ruggiero, i Commissari Sgroi, Accorinti, Savino e d’Angelo, l’impiegato Cascio, il maresciallo Toschi, il brigadiere Bodini, e le guardie: Comini, Babolin, Pisani.

Rimanemmo in carcere 27 giorni, sempre aiutati dai familiari che portavano cibarie e qualche sigaretta. Al suo figliuolo non è mancato mai niente. Con l’animo tranquillo giacché nulla pesava sulla nostra coscienza, speravamo nella liberazione dal carcere ed il ritorno in famiglia. Anzi le autorità germaniche avevano già ordinato il nostro rilascio. Senonché per ordine del Questore Bruni, che aveva supplito il collega Cosenza in carcere, forse istigato dalla Federazione fascista, la SS emise nuovo ordine di trasferire in Germania 10 degli arrestati, escludendo il Questore ed il Capo di Gabinetto, i quali poi furono processati dal Tribunale Speciale di Verona, ma comunque si salvarono, mentre il Questore Bruni, nostro carnefice, venne fucilato dai partigiani dopo la liberazione.

In quei tempi ancora non si sapeva l’esistenza dei campi di sterminio in Germania e quindi il 27 agosto alle prime ore del mattino, assicurandoci che eravamo diretti a Bolzano per essere adibiti ad un lavoro non pesante, sempre le SS ci hanno fatto salire su di un carro ferroviario bestiame, ermeticamente chiuso e quindi, dopo 10 ore di sosta alla stazione sotto il solleone cocente di agosto, partimmo via Trieste per destinazione ignota. Abbiamo viaggiato 3 giorni e, per non addolorarla, non le dico i particolari del nostro patire.

Giunti a Monaco di Baviera abbiamo cominciato a capire dove eravamo diretti. Una sosta di circa un’ora e poi partenza per Dachau. Spogliati di ogni nostro avere, perfino della fede nuziale ai coniugati, depilati e vestiti con indumenti di fortuna ci hanno segregati nel blocco N° 19 dove, debbo dire verità, non si stava tanto male perché non sottoposti a lavori forzati, si viveva insomma alla meno peggio. Naturalmente non eravamo nelle nostre case e la disciplina si cominciava a sentire a suon di bastonate per la minima infrazione.

Verso la metà di settembre ci hanno avvertito che dovevamo essere trasferiti a Mauthausen e qui è cominciata la nostra penosa odissea. Vestiti con la casacca zebrata come ergastolani di notte sotto una pioggia fredda ed ininterrotta ci hanno accompagnati alla stazione e dopo 2 giorni di ripetute privazioni e sofferenze siamo giunti a Mauthausen (Austria) a circa 25 chilometri da Linz. Erano circa le ore 23 e sotto i fari ci hanno sottoposto a visita medica. Eravamo uno dietro l’altro, bagnati fino alla pelle, e siccome io a Dachau ero stato ferito ad una gamba, per un poderoso calcio ricevuto da un appartenente alla SS e la ferita non si era ancora rimarginata, mi hanno trasferito all’ospedale. Immagini il dolore di lasciare il gruppo dei miei compagni di sventura!

Dopo 20 giorni di degenza mi hanno riportato a Mauthausen e per quanto abbia fatto non sono riuscito a ritrovare gli amici. Pensi, in quel campo c’erano già circa 25 mila deportati di tutte le nazioni europee. Mi hanno subito trasferito a Gusen II dove sono stato sottoposto ai lavori forzati, circa 12 ore di pala e piccone dentro una galleria, con trattamento bestiale, sevizie e bastonate ed il mangiare poco e pessimo: un po’ di acqua calda con rape! Dico la verità Signora, a lei non potrei raccontare bugie!

Non posso dirle altro, potrebbe recarle soltanto dolore, pensando che forse anche il povero Filippo è stato sottoposto al medesimo trattamento. La mia salvezza posso attribuirla solamente ad un miracolo. Se la guerra fosse durata ancora 10 giorni ero certamente finito come gli sventurati miei amici. Il loro decesso l’ho appreso soltanto al mio ritorno in patria. Poveri e cari compagni miei, tutti buoni e senza una ragione plausibile. Caduti dopo tante torture! Non posso mai dimenticarli! Tutte le notti nei miei dormiveglia vedo il loro viso e prego tanto per la pace della loro anima santa».

Forse i poliziotti italiani rimasero uniti anche nelle settimane crudeli del lager. Forse li divisero perché nei dintorni c’erano tante fabbriche diverse che lavoravano per il Reich e si rifornivano di manodopera coatta. Tanti anni dopo, di alcuni dei morti si è potuto ricostruire almeno una data di decesso. Di altri, nemmeno questo. Restano alcune fotografie. Li si vede giovani, un po’ spavaldi, in divise antiche, orgogliosi di servire uno Stato che era altro da quello che bussò alla loro porta nel 1944. Il delatore Mario Tamburlini subì un processo nel 1946, fu condannato a 6 anni e 8 mesi per collaborazionismo, ma si salvò dalla galera grazie all’amnistia Togliatti. In memoria dei nove deportati, uccisi nel lager di fame e di stenti, il 26 agosto 1946 fu celebrata una messa solenne nel Duomo di Udine. Poi il nulla. Su quei poliziotti eroi cadde il silenzio. Anche perché le loro famiglie li piangevano privatamente, chi in Puglia, chi in Sicilia, chi in Campania. Luoghi dove erano nati, dove avevano studiato, e da dove, superato un concorso, partirono per prestare servizio in quella lontana questura. «Queste pietre d'inciampo costituiranno comunque un ricordo. Qualcuno che non conosce questa storia si avvicinerà incuriosito e scoprirà delle storie importanti», sono le conclusioni del prefetto Giannini.