Holy See
This article was added by the user . TheWorldNews is not responsible for the content of the platform.

Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan (Pellegrinaggio Ecumenico di Pace in Sud Sudan) (31 gennaio - 5 febbraio 2023) - Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate e i Seminaristi presso la Cattedrale di S. Teresa di Giuba

Incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate ed i Seminaristi presso la Cattedrale di S. Teresa di Giuba

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua inglese

Traduzione in lingua spagnola

Questa mattina, dopo aver celebrato la Santa Messa in privato, il Santo Padre Francesco si è trasferito in auto alla Cattedrale di S. Teresa di Giuba per l’incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate ed i Seminaristi.

Al Suo arrivo alle ore 9.10 (8.10 ora di Roma), il Papa è stato accolto dall’Arcivescovo di Giuba, S.E. Mons. Stephen Ameyu Martin Mulla, e dal parroco che gli ha porto la croce e l’acqua benedetta. Insieme hanno percorso la navata centrale per raggiungere l’altare. Quindi, dopo il canto d’ingresso e il saluto del Presidente della Conferenza Episcopale del Sudan, S.E. Mons. Yunan Tombe Trille Kuku Andali, Vescovo di El Obeid, un sacerdote ed una suora hanno portato la loro testimonianza. Papa Francesco ha pronunciato poi il Suo discorso.

Al termine, dopo la benedizione e il canto finale, il Santo Padre ha posato per una foto di gruppo con i Vescovi. Secondo le autorità locali erano presenti 5000 fedeli, di cui 1000 in chiesa, per l’incontro.

Quindi è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica di Giuba dove - alle ore 11.00 (10.00 ora di Roma) – ha incontrato in forma privata i Membri della Compagnia di Gesù presenti nel Paese. Al termine dell’incontro, ha pranzato in privato.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso dell’incontro con i Vescovi, i Sacerdoti, i Diaconi, i Consacrati e le Consacrate ed i Seminaristi:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli Vescovi, presbiteri e diaconi,

cari consacrati e consacrate,

cari seminaristi, novizie e novizi e aspiranti, buongiorno a tutti!

Da tempo coltivavo il desiderio di incontrarvi; per questo oggi vorrei ringraziare il Signore. Sono grato a Mons. Tombe Trille per il suo saluto e a tutti voi per la presenza e per il vostro saluto! Alcuni hanno fatto giorni di strada per essere qui oggi! Porto sempre scolpiti nel cuore alcuni momenti vissuti prima di questa visita: la celebrazione a San Pietro nel 2017, durante la quale abbiamo elevato la supplica a Dio per il dono della pace; e il ritiro spirituale del 2019 con i Leader politici, invitati affinché, attraverso la preghiera, prendessero nel cuore la ferma decisione di perseguire la riconciliazione e la fraternità nel Paese. Abbiamo anzitutto bisogno di questo: di accogliere Gesù, nostra pace e nostra speranza.

Nel mio discorso di ieri mi sono ispirato al corso delle acque del Nilo, che attraversa il vostro Paese come se fosse la sua spina dorsale. Nella Bibbia, all’acqua sono spesso associate l’azione di Dio creatore, la compassione con cui ci disseta quando ci troviamo a vagare nel deserto, la misericordia con cui ci purifica quando cadiamo nelle paludi del peccato; Egli, nel Battesimo, ci ha santificati «con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo» (Tt 3,5). Proprio secondo una prospettiva biblica vorrei guardare nuovamente alle acque del Nilo. Da una parte, nel letto di questo corso d’acqua si riversano le lacrime di un popolo immerso nella sofferenza e nel dolore, martoriato dalla violenza; un popolo che può pregare come il salmista: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo» (Sal 137,1). Le acque del grande fiume, infatti, raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità, raccolgono il grido di dolore di tante vite spezzate, raccolgono il dramma di un popolo in fuga, l’afflizione del cuore delle donne e la paura impressa negli occhi dei bambini. Si vede, la paura, negli occhi dei bambini. Allo stesso tempo, però, le acque del grande fiume ci riportano alla storia di Mosè e, perciò, sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi in mezzo al Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione, icona del soccorso di Dio che vede l’afflizione dei suoi figli, ascolta il loro grido e scende a liberarli (cfr Es 3,7). Guardando alla storia di Mosè, che ha guidato il Popolo di Dio attraverso il deserto, chiediamoci che cosa significa essere ministri di Dio in una storia attraversata dalla guerra, dall’odio, dalla violenza, dalla povertà. Come esercitare il ministero in questa terra, lungo le sponde di un fiume bagnato da tanto sangue innocente, mentre i volti delle persone a noi affidate sono solcati dalle lacrime del dolore? Questa è la domanda. E quando parlo di ministero, lo faccio in senso largo: ministero presbiterale, diaconale e ministero catechistico, di insegnamento, che fanno tanti consacrati, consacrate e laici.

Per provare a rispondere, vorrei soffermarmi su due atteggiamenti di Mosè: la docilità e l’intercessione. Credo che queste due cose toccano la nostra vita, qui.

La prima cosa che colpisce della storia di Mosè è la sua docilità all’iniziativa di Dio. Non dobbiamo pensare, però, che sia sempre stato così: in un primo tempo egli aveva preteso di portare avanti da solo il tentativo di combattere l’ingiustizia e l’oppressione. Salvato dalla figlia del faraone nelle acque del Nilo, quando aveva scoperto la sua identità si era lasciato toccare dalla sofferenza e dall’umiliazione dei suoi fratelli, tanto che un giorno aveva deciso di fare giustizia da solo, colpendo a morte un egiziano che maltrattava un ebreo. A seguito di questo episodio, però, era dovuto scappare e restare per lunghi anni nel deserto. Lì sperimentò una sorta di deserto interiore: aveva pensato di affrontare l’ingiustizia con le sue sole forze e adesso, come conseguenza, si ritrovava ad essere un fuggitivo, a doversi nascondere, a vivere nella solitudine, a sperimentare il senso amaro del fallimento. Mi domando: qual era stato l’errore di Mosè? Pensare di essere lui il centro, contando solo sulle sue forze. Ma così era rimasto prigioniero dei peggiori metodi umani, come quello di rispondere alla violenza con la violenza.

A volte qualcosa di simile può capitare anche nella nostra vita di sacerdoti, diaconi, religiosi, seminaristi, consacrate, consacrati, tutti: sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani, come il denaro, la furbizia, il potere. Invece, la nostra opera viene da Dio: Lui è il Signore e noi siamo chiamati a essere docili strumenti nelle sue mani. Mosè apprende questo quando, un giorno, Dio gli viene incontro, apparendogli «in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto» (Es 3,2). Mosè si lascia attrarre, fa spazio allo stupore, si mette nell’atteggiamento della docilità per lasciarsi illuminare dal fascino di quel fuoco, di fronte al quale pensa: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?» (v. 3).Ecco la docilità che serve al nostro ministero: avvicinarci a Dio con stupore e umiltà. Sorelle e fratelli, non perdete lo stupore dell’incontro con Dio! Non perdete lo stupore del contatto con la Parola di Dio. Mosè si è lasciato attrarre e orientare da Dio. Il primato non è a noi, il primato è a Dio: affidarci alla sua Parola prima di servirci delle nostre parole, accogliere docilmente la sua iniziativa prima di puntare sui nostri progetti personali ed ecclesiali.

È questo lasciarci plasmare docilmente che ci fa vivere in modo rinnovato il ministero. Davanti al Buon Pastore, comprendiamo che non siamo capi tribù, ma Pastori compassionevoli e misericordiosi; non padroni del popolo, ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non siamo un’organizzazione mondana che amministra beni terreni, ma siamo la comunità dei figli di Dio. Sorelle e fratelli, facciamo allora come Mosè al cospetto di Dio: togliamoci i sandali con umile rispetto (cfr v. 5), spogliamoci della nostra presunzione umana, lasciamoci attrarre dal Signore e coltiviamo l’incontro con Lui nella preghiera; accostiamoci ogni giorno al mistero di Dio, perché ci stupisca e perché bruci le sterpaglie del nostro orgoglio e delle nostre ambizioni smodate e ci renda umili compagni di viaggio di quanti ci sono affidati.

Purificato e illuminato dal fuoco divino, Mosè diventa strumento di salvezza per i suoi che soffrono; la docilità verso Dio lo rende capace di intercedere per i fratelli. Ecco il secondo atteggiamento di cui vorrei parlarvi oggi: l’intercessione. Mosè ha fatto esperienza di un Dio compassionevole, che non resta indifferente davanti al grido del suo popolo e scende a liberarlo. È bello questo: scendere. Dio scende a liberarlo. Dio, per la sua condiscendenza nei nostri riguardi, viene in mezzo a noi fino ad assumere in Gesù la nostra carne, provare la nostra morte e i nostri inferi. Sempre scende per rialzarci e chi fa esperienza di Lui è portato a imitarlo. Così fa Mosè, che “scende” in mezzo ai suoi: lo farà più volte durante la traversata nel deserto. Egli, infatti, nei momenti più importanti e difficili, sale e scende dal monte della presenza di Dio al fine di intercedere per il popolo, cioè di mettersi dentro alla sua storia per avvicinarlo a Dio. Fratelli e sorelle, intercedere «non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione» (C.M. Martini, Un grido di intercessione, Milano, 29 gennaio 1991). A volte non si ottiene molto, ma bisogna farlo: un grido di intercessione. Intercedere è quindi scendere per mettersi in mezzo al popolo, “farsi ponti” che lo collegano a Dio.

Ai Pastori è richiesto di sviluppare proprio quest’arte di “camminare in mezzo”. Dev’essere la specialità dei pastori, camminare in messo: in mezzo alle sofferenze, in mezzo alle lacrime, in mezzo alla fame di Dio e alla sete di amore dei fratelli e delle sorelle. Il nostro primo dovere non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata – questo lo può fare qualsiasi ditta –, ma una Chiesa che, in nome di Cristo, sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente. Mai dobbiamo esercitare il ministero inseguendo il prestigio religioso e sociale – quel brutto “fare carriera” –, ma camminando in mezzo e insieme, imparando ad ascoltare e a dialogare, collaborando tra noi ministri e con i laici. Ecco, vorrei ripetere questa parola importante: insieme. Non dimentichiamola: insieme. Vescovi e preti, preti e diaconi, pastori e seminaristi, ministri ordinati e religiosi, sempre nutrendo rispetto per la meravigliosa specificità della vita religiosa: cerchiamo di vincere tra di noi la tentazione dell’individualismo, degli interessi di parte. È molto triste quando i Pastori non sono capaci di comunione, non riescono a collaborare, addirittura si ignorano tra loro! Coltiviamo il rispetto reciproco, la vicinanza, la collaborazione concreta. Se ciò non accade tra di noi, come possiamo predicarlo agli altri?

Torniamo a Mosè e, per approfondire l’arte dell’intercessione, guardiamo alle sue mani. La Scrittura ci offre tre immagini al riguardo: Mosè col bastone in mano, Mosè con le mani protese, Mosè con le mani alzate al cielo.

La prima immagine, quella di Mosè col bastone in mano, ci dice che egli intercede con la profezia. Con quel bastone compirà dei prodigi, segni della presenza e della potenza di Dio, nel nome del quale parla, denunciando ad alta voce il male che il popolo soffre e chiedendo al faraone di lasciarlo partire. Fratelli e sorelle, per intercedere a favore del nostro popolo siamo chiamati anche noi ad alzare la voce contro l’ingiustizia e la prevaricazione, che schiacciano la gente e si servono della violenza per gestire gli affari all’ombra dei conflitti. Se vogliamo essere Pastori che intercedono, non possiamo restare neutrali dinanzi al dolore provocato dalle ingiustizie e dalle violenze perché, là dove una donna o un uomo vengono feriti nei loro diritti fondamentali, Cristo stesso è offeso. Sono stato contento di ascoltare nella testimonianza di Padre Luka che la Chiesa non smette di portare avanti un ministero insieme profetico e pastorale. Grazie! Grazie perché, se c’è una tentazione da cui dobbiamo guardarci, è quella di lasciare le cose come stanno e non interessarci delle situazioni per paura di perdere privilegi e convenienze.

Seconda immagine: Mosè con le mani protese. Egli, dice la Scrittura, «stese la mano sul mare» (Es 14,21). Le sue mani distese sono il segno che Dio sta per operare. In seguito, Mosè terrà tra le mani le tavole della Legge (cfr Es 34,29) per mostrarle al popolo; le sue mani protese indicano la vicinanza di Dio che è all’opera e accompagna il suo popolo. Per liberare dal male non basta infatti la profezia, occorre protendere le braccia ai fratelli e alle sorelle, sostenere il loro cammino. Accarezzare il gregge di Dio. Possiamo immaginare Mosè che indica il percorso e stringe le mani dei suoi per incoraggiarli ad andare avanti. Per quarant’anni, da anziano, rimane accanto ai suoi: ecco la vicinanza. E non è stato un compito facile: egli spesso ha dovuto rianimare un popolo scoraggiato e stanco, affamato e assetato, a volte anche capriccioso, che si lasciava andare alla mormorazione e alla pigrizia. E per esercitare tale compito ha dovuto anche lottare con sé stesso, perché a volte ha vissuto momenti di oscurità e di desolazione, come quello in cui disse al Signore: «Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, al punto di impormi il peso di tutto questo popolo? [...] Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è troppo pesante per me» (Nm 11,11.14). Guarda la preghiera di Mosè: è stanco. Eppure, Mosè non si è ritirato: sempre vicino a Dio, non si è mai allontanato dai suoi. Anche noi abbiamo questo compito: tendere le mani, rialzare i fratelli, ricordare loro che Dio è fedele alle sue promesse, esortarli ad andare avanti. Le nostre mani sono state “unte di Spirito” non solo per i sacri riti, ma per incoraggiare, aiutare, accompagnare le persone ad uscire da ciò che le paralizza, le chiude e le rende timorose.

Infine – terza immagine –: le mani alzate al cielo. Quando il popolo cade nel peccato e si costruisce un vitello d’oro, Mosè sale di nuovo sul Monte – pensiamo a quanta pazienza! – e pronuncia una preghiera che è una vera e propria lotta con Dio perché non abbandoni Israele. Arriva a dire: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro.Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,31-32). Si schiera dalla parte del popolo fino alla fine, alza la mano in suo favore. Non pensa a salvarsi da solo, non vende il popolo per i propri interessi! Intercede. Mosè intercede, Mosè lotta con Dio; tiene le braccia alzate in preghiera mentre i suoi fratelli combattono a valle (cfr Es 17,8-16). Sostenere con la preghiera davanti a Dio le lotte del popolo, attirare il perdono, amministrare la riconciliazione come canali della misericordia di Dio che rimette i peccati: questo è il nostro compito di intercessori!

Carissimi, queste mani profetiche, protese e alzate costano fatica, non è facile. Essere profeti, accompagnatori, intercessori, mostrare con la vita il mistero della vicinanza di Dio al suo Popolo può richiedere la vita stessa. Tanti sacerdoti, religiose e religiosi – come suor Regina ci ha detto delle sue sorelle – sono rimasti vittime di violenze e attentati in cui hanno perso la vita. In realtà, l’esistenza l’hanno offerta per la causa del Vangelo e la loro vicinanza ai fratelli e alle sorelle è una testimonianza meravigliosa che ci lasciano e che ci invita a portare avanti il loro cammino. Possiamo ricordare San Daniele Comboni, che con i suoi fratelli missionari ha compiuto in questa terra una grande opera di evangelizzazione: egli diceva che il missionario dev’essere disposto a tutto per Cristo e per il Vangelo, e che c’è bisogno di anime ardite e generose che sappiano patire e morire per l’Africa.

Allora io vorrei ringraziarvi per quello che fate in mezzo a tante prove e fatiche. Grazie, a nome della Chiesa intera, per la vostra dedizione, il vostro coraggio, i vostri sacrifici, la vostra pazienza. Grazie! Vi auguro, cari fratelli e sorelle, di essere sempre Pastori e testimoni generosi, armati solo di preghiera e di carità; pastori testimoni, che docilmente si lasciano sorprendere dalla grazia di Dio e diventano strumenti di salvezza per gli altri; pastori e profeti di vicinanza che accompagnano il popolo, intercessori con le braccia alzate. La Vergine Santa vi custodisca. In questo momento, pensiamo in silenzio a questi nostri fratelli e sorelle che hanno dato la vita in questo ministero pastorale qui, e ringraziamo il Signore perché è stato vicino. Ringraziamo il Signore per la loro vicinanza martiriale. Preghiamo in silenzio.

Grazie per la vostra testimonianza. E se avete un pochettino di tempo, pregate per me. Grazie.

[00169-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Traduzione in lingua inglese

Dear brother Bishops, priests and deacons,

Dear consecrated brothers and sisters,

Dear seminarians, novices and aspirants, good morning to all of you!

I have been looking forward to meeting you, and I want to thank the Lord for this occasion. I am grateful to Bishop Tombe Trille for his words of greeting and to all of you for your presence today and also for your greeting; some of you travelled for days to be here today! Several of our previous experiences have a special place in my heart: the celebration in Saint Peter’s in 2017, when we prayed together for the gift of peace, and the spiritual retreat in 2019 with the political leaders, who were asked to embrace, through prayer, the firm resolve to pursue reconciliation and fraternity in this country. Indeed, all of us need to embrace Jesus, our peace and our hope.

In my address yesterday, I drew upon the image of the waters of the Nile, which flows through your country, as if it were its backbone. In the Bible, water is often associated with God’s activity in creation, his compassion in quenching our thirst when we wander through the desert, and his mercy in cleansing us when we are mired in sin. In baptism, he sanctified us “through the water of rebirth and renewal by the Holy Spirit” (Titus 3:5). From the same biblical perspective, I would like to take another look at the waters of the Nile. Merged with those waters are the tears of a people immersed in suffering and pain, and tormented by violence, who can pray like the psalmist, “By the rivers of Babylon—there we sat down and there we wept” (Ps 137:1). Indeed, the waters of that great river collect the sighs and sufferings of your communities, they collect the pain of so many shattered lives, they collect the tragedy of a people in flight, the sorrow and fear in the hearts and eyes of so many women and children. We can see this fear in the eyes of children. At the same time, though, the waters of the Nile remind us of the story of Moses and thus they also speak of liberation and salvation. From those waters, Moses was saved and, by leading his own people through the Red Sea, he became for them a means of liberation, an icon of the saving help of God who sees the affliction of his children, hears their cry and comes down to set them free (cf. Ex 3:7). Remembering the story of Moses, who led God’s people through the desert, let us ask ourselves what it means for us to be ministers of God in a land scarred by war, hatred, violence, and poverty. How can we exercise our ministry in this land, along the banks of a river bathed in so much innocent blood, among the tear-stained faces of the people entrusted to us? This is the question. And when I speak of ministry, I do so in the broad sense: priestly and diaconal ministry and also catechetical ministry, the ministry of teaching, which so many consecrated men and women, as well as the lay faithful, carry out.

To try to answer this, I would like to reflect on two aspects of Moses’ character: his meekness and his intercession. I think these two aspects concern our lives here.

The first thing that strikes us about the story of Moses is his meekness, his docile response to God’s initiative. We must not think, though, that it was always this way: at first, he attempted to fight injustice and oppression on his own. Saved by Pharaoh’s daughter in the waters of the Nile, he then discovered his identity and was moved by the suffering and humiliation of his brothers, so much so that one day he decided to take justice into his own hands: he killed an Egyptian who was beating a Hebrew. As a result, he had to flee to the desert, where he remained for many years. There he experienced a kind of interior desert. He had thought he could confront injustice on his own and now he found himself a fugitive, alone and in hiding, experiencing a bitter sense of failure. I wonder: What was Moses’ mistake? He had put himself at the centre, and relied on his strength alone. Yet in this way, he remained trapped in the worst of our human ways of doing things: he had responded to violence with violence.

At times, something similar can happen in our own lives as priests, deacons, religious, seminarians, consecrated men and women, all of us: deep down, we can think that we are at the centre of everything, that we can rely, if not in theory at least in practice, almost exclusively on our own talents and abilities. Or, as a Church, we think we can find an answer to people’s suffering and needs through human resources, like money, cleverness or power. Instead, everything we accomplish comes from God: he is the Lord, and we are called to be docile instruments in his hands. Moses learned this when, one day, God appeared to him “in a flame of fire out of a bush” (Ex 3:2). Moses found himself drawn to this sight; he was open to being amazed and so, in meekness, he approached that strange blazing fire. He thought: “I must turn aside and look at this great sight, and see why the bush is not burned up” (v. 3). This is the kind of meekness that we need in our ministry: a readiness to approach God in wonder and humility. Sisters and brothers, do not lose the wonder of the encounter with God! Do not lose the wonder of contact with the word of God. Moses let himself be drawn to God and guided by him. The primacy is not ours, the primacy is God’s: entrusting ourselves to his word before we start using our own words, meekly accepting his initiative before we get caught up in our personal and ecclesial projects.

By allowing ourselves, in meekness, to be shaped by the Lord, we experience renewal in our ministry. In the presence of the Good Shepherd, we realize that we are not tribal chieftains, but compassionate and merciful shepherds; not overlords, but servants who stoop to wash the feet of our brothers and sisters; we are not a worldly agency that administers earthly goods, but the community of God’s children. Dear sisters and brothers, let us do, then, what Moses did in God’s presence. Let us remove our sandals with humble awe (cf. v. 5) and divest ourselves of our human presumption. Let us allow ourselves to be drawn to the Lord and spend time with him in prayer. Let us daily approach the mystery of God, so that he can astonish us and burn away the dead wood of our pride and our immoderate ambitions, and make us humble travelling companions of all those entrusted to our care.

Purified and enlightened by the divine fire, Moses became a means of salvation for his suffering brothers and sisters. His meekness before God made him capable of interceding for them. This is the second aspect of his character that I would like to discuss today: Moses was an intercessor. He experienced a God of compassion, who hears the cry of his people and comes down to deliver them. This phrase is beautiful: he comes down. God comes down to deliver them. In his “condescension”, God comes down among us, even taking on our flesh in Jesus, experiencing our death and our most hellish moments. He constantly comes down in order to raise us up. Those who experience him are led to imitate him. Like Moses, who “came down” to be in the midst of his people a number of times during the sojourn in the desert. Indeed, at the most important and trying moments, he would ascend the mountain of God’s presence to intercede for the people, that is, to stand in their place in order to bring them closer to God, and then come down. Brothers and sisters, interceding “does not mean simply ‘praying for someone’, as we so often think. Etymologically it means ‘to step into the middle’, to be willing to walk into the middle of a situation” (C.M. MARTINI, Un grido di intercessione, Milan, 29 January 1991). Sometimes we do not obtain much, but we need to offer a cry of intercession. To intercede is thus to come down and place ourselves in the midst of our people, to act as a bridge that connects them to God.

It is precisely this art of “stepping into the middle” of our brothers and sisters that the Church’s pastors need to cultivate; this must be their specialty: the ability to step into the middle of their sufferings and tears, into the middle of their hunger for God and their thirst for love. Our first duty is not to be a Church that is perfectly organized – any company can do this – but a Church that, in the name of Christ, stands in the midst of people’s troubled lives, a Church that is willing to dirty its hands for people. We must never exercise our ministry by chasing after religious or social prestige – the ugliness of careerism – but rather by walking in the midst of and alongside our people, learning to listen and to dialogue, cooperating as ministers with one another and with the laity. Let me repeat this important word: together. Let us never forget it: together. Bishops and priests, priests and deacons, pastors and seminarians, ordained ministers and religious – always showing respect for the marvelous specificity of religious life. Let us make every effort to banish the temptation to individualism, to partisan interests. How sad it is when the Church’s pastors are incapable of communion, when they fail to cooperate, and even ignore one another! Let us cultivate mutual respect, closeness and practical cooperation. If we fail to do this ourselves, how can we preach it to others?

Let us now go back to Moses, and reflect on the art of intercession, let us look at his hands. Scripture offers us three images in this regard: Moses with staff in hand, Moses with outstretched hands, Moses with his hands raised to heaven.

The first image, Moses with staff in hand, tells us that he intercedes with prophecy. With that staff, he works wonders, signs of God’s presence and power; he speaks in God’s name, forcefully denouncing the oppression that the people are suffering, and demanding Pharaoh to let them depart. Brothers and sisters, we too are called to intercede for our people, to raise our voices against the injustice and the abuses of power that oppress and use violence to suit their own ends amid the cloud of conflicts. If we want to be pastors who intercede, we cannot remain neutral before the pain caused by acts of injustice and violence. To violate the fundamental rights of any woman or man is an offence against Christ himself. I was happy to hear in Father Luka’s testimony that the Church tirelessly carries out a ministry that is both prophetic and pastoral. Thank you! Thank you because, if there is one temptation against which we must guard, it is that of leaving things as they are and not getting involved in situations for fear of losing privileges and benefits.

The second image is that of Moses with outstretched hands. Scripture tells us that he “stretched out his hand over the sea” (Ex 14:21). His extended hands are the sign that God is about to show his power. Later, Moses will hold the tablets of the Law in his hands (cf. Exthe closeness of God who is ever active in accompanying his people. Of itself, prophecy does not suffice for deliverance from evil: it is necessary to extend our arms to our brothers and sisters, to support them on their journey; to caress God’s flock. We can imagine Moses pointing the way and taking people by the hand to encourage them to persevere. For forty years, in his old age, he remained at their side: that is what closeness means. It was no easy task: often he had to lift the spirits of a people who were discouraged and weary, hungry and thirsty, and sometimes even wayward and prone to grumbling and lethargy. In doing so, Moses also had to struggle with himself, for at times, he too experienced moments of darkness and desolation, as when he said to the Lord: “Why have you treated your servant so badly? Why have I not found favour in your sight, that you lay the burden of all this people on me? … I am not able to carry all this people alone, for they are too heavy for me[U1]” (Num 11:11, 14). Look at how Moses prayed: he was tired. Yet, he did not step back: ever close to God, he did not turn his back on his people. This is also our job: to stretch out our hands, to rouse our brothers and sisters, to remind them that God is faithful to his promises, to urge them on. Our hands were “anointed with Spirit” not only for the sacred rites, but also to encourage, help and accompany people to leave behind whatever paralyzes them, keeps them closed in on themselves, and makes them fearful.

Finally – the third image – Moses with his hands raised to heaven. When the people fell into sin and made a golden calf for themselves, Moses went up the mountain once again – think of what great patience he must have had! – and said a prayer, which shows him wrestling with God, begging him not to abandon Israel. He went so far as to say: “This people has sinned a great sin; they have made for themselves [U2]gods [U3]of gold. But now, if you will only forgive their sin – but if not, blot me out of the book that you have written” (Ex 32:31-32). Moses stood with the people to the very end, raising his hands on their behalf. He did not think of saving himself alone; he did not sell out the people for his own interests! He interceded, he wrestled with God; he kept his arms raised in prayer while his brethren battled in the valley below (cf. Ex 17:8-16). Bringing the struggles of the people before God in prayer, obtaining forgiveness for them, administering reconciliation as channels of God’s mercy: this is our task as intercessors.

Beloved, these prophetic hands, outstretched and raised, demand great effort, which is not easy. To be prophets, companions and intercessors, to show with our life the mystery of God’s closeness to his people, can cost us our lives. Many priests and religious – as Sister Regina told us of her own sisters – have been victims of violence and attacks in which they lost their lives. In a very real way, they offered their lives for the sake of the Gospel. Their closeness to their brothers and sisters is a marvellous testimony that they bequeath to us, a legacy that invites us to carry forward their mission. Let us think of Saint Daniele Comboni, who with his missionary brothers carried out a great work of evangelization in this land. He used to say that a missionary must be ready to do anything for the sake of Christ and the Gospel. We need courageous and generous souls ready to suffer and die for Africa.

I would like to thank you, then, for everything that you do amid so many trials and tribulations. Thank you, on behalf of the entire Church, for your dedication, your courage, your sacrifices and your patience. Thank you! Dear brothers and sisters, I pray that you will always be generous pastors and witnesses, armed only with prayer and love; pastors and witnesses allowing yourselves, in meekness, to be constantly surprised by God’s grace; and that you may become a means of salvation for others, pastors and prophets of closeness who accompany the people, intercessors with uplifted arms. May the Blessed Virgin Mary protect you. At this moment, let us recall in silence those brothers and sisters of ours who have given their lives in pastoral ministry here, and let us thank the Lord because he has been close. Let us thank the Lord for the closeness of their “martyrdom”. Let us pray in silence.

Thank you for your witness. And, if you have a little time, please pray for me. Thank you.

[00169-EN.02] [Original text: Italian]

Traduzione in lingua spagnola

Queridos hermanos obispos, presbíteros y diáconos,

queridos consagrados y consagradas, queridos seminaristas, novicias, novicios y aspirantes: ¡buenos días a todos!

Desde hace tiempo tenía el deseo de encontrarme con ustedes; por eso hoy quisiera agradecer al Señor. Agradezco a Mons. Tombe Trille su saludo y a todos ustedes su presencia y su saludo. Algunos hicieron días de camino para estar hoy aquí. Llevo siempre grabados en el corazón algunos momentos que hemos vivido antes de esta visita, como la celebración en San Pedro en el 2017, durante la cual elevamos una súplica a Dios pidiendo el don de la paz; y el retiro espiritual del 2019 con los líderes políticos, que fueron invitados para que, por medio de la oración, acogieran en sus corazones la firme resolución de trabajar por la reconciliación y la fraternidad en el país. Nuestra necesidad primordial es acoger a Jesús, nuestra paz y nuestra esperanza.

En mi discurso de ayer me inspiré en el curso de las aguas del Nilo, que atraviesa vuestro país como si fuera su espina dorsal. En la Biblia, a menudo se asocia el agua a la acción de Dios creador; a la compasión que sacia nuestra sed cuando atravesamos el desierto; a la misericordia que nos purifica cuando caemos en el pantano del pecado. Él, en el Bautismo, nos ha santificado «por el baño del nuevo nacimiento y la renovación del Espíritu Santo» (Tt 3,5). Precisamente desde una perspectiva bíblica, quisiera mirar nuevamente las aguas del Nilo. Por una parte, en el lecho de este curso de agua se derraman las lágrimas de un pueblo inmerso en el sufrimiento y en el dolor, martirizado por la violencia; un pueblo que puede rezar como el salmista: «Junto a los ríos de Babilonia, nos sentábamos a llorar» (Sal 137,1). Las aguas del gran río, en efecto, recogen el llanto desgarrado de vuestra comunidad, recogen el grito de dolor por tantas vidas destrozadas, recogen el drama de un pueblo que huye, la aflicción del corazón de las mujeres y el miedo impreso en los ojos de los niños. Se ve el miedo en los ojos de los niños. Pero, al mismo tiempo, las aguas del gran río nos evocan la historia de Moisés y, por eso, son signo de liberación y de salvación. Moisés, de hecho, fue salvado de las aguas y, al haber conducido a los suyos por el Mar Rojo, se convirtió en instrumento de liberación, icono del auxilio de Dios que ve la opresión de sus hijos, escucha sus gritos y baja a liberarlos (cf. Ex 3,7). Contemplando la historia de Moisés, que guio al Pueblo de Dios por el desierto, preguntémonos qué significa ser ministros de Dios en una historia marcada por la guerra, el odio, la violencia y la pobreza. ¿Cómo ejercitar el ministerio en esta tierra, a lo largo de la orilla de un río bañado por tanta sangre inocente, mientras que los rostros de las personas que se nos confían están surcados por lágrimas de dolor? Esta es la pregunta. Y cuando hablo de ministerio, lo hago en sentido amplio: ministerio presbiteral, diaconal y ministerio catequístico, de enseñanza, que hacen tantos consagrados, consagradas y laicos.

Para intentar responder, quisiera concentrarme en dos actitudes de Moisés: la docilidad y la intercesión. Creo que estas dos cosas tocan nuestra vida, aquí.

Lo primero que nos impacta de la historia de Moisés es su docilidad a la iniciativa de Dios. Pero no debemos pensar que siempre haya sido así; en un primer momento pretendió llevar adelante por su cuenta el esfuerzo por combatir la injusticia y la opresión. Habiendo sido salvado por la hija del faraón en las aguas del Nilo, cuando ya había descubierto su identidad se conmovió por el sufrimiento y la humillación de sus hermanos, tanto que un día decidió hacer justicia por sí mismo, hiriendo de muerte a un egipcio que maltrataba a un hebreo. Sin embargo, después de este episodio tuvo que escapar y permanecer muchos años en el desierto. Allí experimentó una especie de desierto interior: había pensado afrontar la injusticia sólo con sus fuerzas y ahora, como consecuencia, se había convertido en un fugitivo; tenía que esconderse, vivir en soledad y experimentar el amargo significado del fracaso. Me pregunto: ¿cuál había sido el error de Moisés? Pensar que él era el centro, contando solamente con sus propias fuerzas. Pero, de ese modo, se había quedado prisionero de los peores métodos humanos, como el de responder a la violencia con más violencia.

Algo parecido nos puede pasar también en nuestra vida como sacerdotes, diáconos, religiosos y seminaristas, consagradas, consagrados, todos; en el fondo, pensamos que nosotros somos el centro, que podemos confiar —si no en teoría, al menos en la práctica— casi exclusivamente en nuestras propias habilidades; o, como Iglesia, pensamos dar respuestas a los sufrimientos y a las necesidades del pueblo con instrumentos humanos, como el dinero, la astucia, el poder. En cambio, nuestra obra viene de Dios. Él es el Señor y nosotros estamos llamados a ser dóciles instrumentos en sus manos. Moisés aprendió esto cuando, un día, Dios fue a su encuentro, apareciendo «en una llama de fuego, que salía de en medio de la zarza» (Ex 3,2). Moisés se dejó atraer, dio espacio al asombro, adoptó una actitud dócil para dejarse iluminar por la fascinación de ese fuego, ante el cual pensó: «Voy a observar este grandioso espectáculo. ¿Por qué será que la zarza no se consume?» (v. 3). Esta es la docilidad que se necesita en nuestro ministerio: acercarnos a Dios con asombro y humildad. Hermanas y hermanos, no pierdan el asombro del encuentro con Dios. No pierdan el asombro del contacto con la Palabra de Dios. Moisés se dejó atraer y orientar por Dios. Confiemos en su Palabra antes de usar nuestras palabras, acojamos con mansedumbre su iniciativaantes de centrarnos en nuestros proyectos personales y eclesiales; pues la primacía no es nuestra, la primacía es de Dios.

Este dejarnos modelar dócilmente es lo que nos hace vivir el ministerio de manera renovada. Ante el Buen Pastor, comprendemos que no somos los jefes de una tribu, sino pastores compasivos y misericordiosos; que no somos los dueños del pueblo, sino siervos que se inclinan a lavar los pies de los hermanos y las hermanas; que no somos una organización mundana que administra bienes terrenos, sino la comunidad de los hijos de Dios. Hermanas y hermanos, entonces, hagamos como Moisés en la presencia de Dios: quitémonos las sandalias con humilde respeto (cf. v. 5), despojémonos de nuestra presunción humana, dejémonos atraer por el Señor y cultivemos el encuentro con Él en la oración; acerquémonos cada día al misterio de Dios, para que nos sorprenda, para que queme la maleza de nuestro orgullo y de nuestras ambiciones desmedidas y nos haga humildes compañeros de viaje de las personas que se nos encomiendan.

Purificado e iluminado por el fuego divino, Moisés se convierte en instrumento de salvación para sus hermanos que sufren; la docilidad a Dios lo hace capaz de interceder por ellos. Esta es la segunda actitud de la que quisiera hablarles hoy: la intercesión. Moisés hizo experiencia de un Dios compasivo, que no permanece indiferente frente al clamor de su pueblo y desciende a liberarlo. Es hermoso este descender. Dios desciende a liberarlo. Dios, por su condescendencia hacia nosotros, vino entre nosotros hasta asumir en Jesús nuestra carne, experimentar nuestra muerte y nuestros infiernos. No deja de descender para levantarnos. Quien es un experimentado de Él, está llamado a imitarlo. Eso hace Moisés, que “desciende” entre los suyos. Lo hará más veces durante el paso por el desierto. Él, en efecto, en los momentos más importantes y difíciles, sube y baja del monte de la presencia de Dios para interceder por el pueblo, es decir, para entrar en su historia y acercarlo a Dios. Hermanos y hermanas, interceder «no quiere decir simplemente “rezar por alguien”, como casi siempre pensamos. Etimológicamente significa “dar un paso al medio”, o sea, dar un paso para ponernos en medio de una situación» (C.M. Martini, Diccionario Espiritual, Madrid, 1997). A veces no se obtiene mucho, pero es necesario hacerlo; un grito de intercesión. Interceder es, por tanto, descender para ponerse en medio del pueblo, “hacerse puentes” que lo unen con Dios.

A los pastores se les pide que desarrollen precisamente este arte de “caminar en medio”. La especialidad de los pastores debe ser caminar en medio: en medio de los sufrimientos, en medio de las lágrimas, en medio del hambre de Dios y de la sed de amor de los hermanos y hermanas. Nuestro primer deber no es el de ser una Iglesia perfectamente organizada —esto lo puede hacer cualquier empresa—, sino una Iglesia que, en nombre de Cristo, está en medio de la vida dolorosa del pueblo y se ensucia las manos por la gente. Nunca debemos ejercitar el ministerio persiguiendo el prestigio religioso y social —ese feo “hacer carrera”—, sino caminando en medio y juntos, aprendiendo a escuchar y a dialogar, colaborando entre nosotros ministros y con los laicos. Quisiera repetir esta palabra importante: juntos. No lo olvidemos: juntos. Obispos y sacerdotes, sacerdotes y diáconos, pastores y seminaristas, ministros ordenados y religiosos, siempre en el respeto de la maravillosa especificidad de la vida religiosa. Tratemos de vencer entre nosotros la tentación del individualismo, de los intereses de parte. Es muy triste cuando los pastores no son capaces de comunión, ni logran colaborar entre ellos, ¡incluso se ignoran! Cultivemos el respeto recíproco, la cercanía, la colaboración concreta. Si eso no sucede entre nosotros, ¿cómo podemos predicarlo a los demás?

Volvamos a Moisés y, para profundizar en el arte de la intercesión, miremos sus manos. A este respecto, la Escritura nos ofrece tres imágenes: Moisés con el bastón en sus manos, Moisés con las manos extendidas y Moisés con las manos alzadas al cielo.

La primera imagen, la de Moisés con el bastón en sus manos, nos dice que él intercede con la profecía. Con ese bastón realizará prodigios, signos de la presencia y del poder de Dios, en cuyo nombre está hablando, denunciando a voz en grito el mal que sufre el pueblo y pidiendo al faraón que lo deje partir. Hermanos y hermanas, para interceder en favor de nuestro pueblo, también nosotros estamos llamados a alzar la voz contra la injusticia y la prevaricación, que aplastan a la gente y utilizan la violencia para sacar adelante sus negocios a la sombra de los conflictos. Si queremos ser pastores que interceden, no podemos permanecer neutrales frente al dolor provocado por las injusticias y las agresiones porque, allí donde una mujer o un hombre son heridos en sus derechos fundamentales, se ofende al mismo Cristo. Me alegró escuchar en el testimonio del Padre Luka que la Iglesia no deja de llevar adelante un ministerio que es al mismo tiempo profético y pastoral. ¡Gracias! Gracias porque, si hay una tentación de la que tenemos que cuidarnos, es la de dejar las cosas como están y no interesarnos por las situaciones a causa del miedo a perder privilegios y conveniencias.

Segunda imagen: Moisés con las manos extendidas. Él, dice la Escritura, «extendió su mano sobre el mar» (Ex 14,21). Sus manos extendidas son el signo de que Dios está a punto de obrar. Más tarde, Moisés sostendrá entre sus manos las tablas de la Ley (cf. Ex 34,29) para mostrarlas al pueblo; sus manos extendidas indican la cercanía de Dios que está obrando y que acompaña a su pueblo. Para liberar del mal no es suficiente la profecía; es necesario extender los brazos hacia los hermanos y hermanas, apoyar su camino. Acariciar el rebaño de Dios. Podemos imaginar a Moisés que indica el recorrido y estrecha las manos de los suyos para animarlos a seguir adelante. Durante cuarenta años, como anciano, permanece junto a los suyos; esta es la cercanía. Y no fue una tarea fácil; a menudo tuvo que alentar a un pueblo abatido y cansado, hambriento y sediento, a veces también caprichoso, que se dejaba arrastrar por la murmuración y la pereza. Y para ejercitar esa tarea también tuvo que luchar consigo mismo, porque, en algunas ocasiones, vivió momentos de oscuridad y desolación, como aquella vez que le dijo al Señor: «¿Por qué tratas tan duramente a tu servidor? ¿Por qué no has tenido compasión de mí, y me has cargado con el peso de todo este pueblo? [...] Yo solo no puedo soportar el peso de todo este pueblo: mis fuerzas no dan para tanto» (Nm 11,11.14). Mira la oración de Moisés: está cansado. Sin embargo, Moisés no se retiró; siempre cerca de Dios, nunca se alejó de los suyos. También nosotros tenemos esta tarea: extender las manos, levantar a los hermanos, recordarles que Dios es fiel a sus promesas, exhortarlos a seguir adelante. Nuestras manos han sido “ungidas por el Espíritu” no sólo para los ritos sagrados, sino para alentar, ayudar, acompañar a las personas a salir de aquello que las paraliza, las encierra y las vuelve temerosas.

Por último —tercera imagen— las manos alzadas al cielo. Cuando el pueblo cayó en el pecado y se construyó un becerro de oro, Moisés subió de nuevo al monte —¡pensemos cuánta paciencia!— y pronunció una oración que es una auténtica lucha con Dios para que no abandone a Israel. Llegó a decir: «Este pueblo ha cometido un gran pecado, ya que se han fabricado un dios de oro. ¡Si tú quisieras perdonarlo, a pesar de esto…! Y si no, bórrame por favor del Libro que tú has escrito» (Ex 32,31-32). Se pone del lado del pueblo hasta el final, alza la mano en su favor. No piensa en salvarse solo, no vende al pueblo por sus propios intereses. Intercede. Moisés intercede, Moisés lucha con Dios; mantiene los brazos alzados en oración, mientras que sus hermanos combaten en el valle (cf. Ex 17,8-16). Sostener con la oración ante Dios las luchas del pueblo, atraer el perdón, administrar la reconciliación como canales de la misericordia de Dios que perdona los pecados; esa es nuestra tarea como intercesores.

Queridos hermanos y hermanas, estas manos proféticas, extendidas y alzadas cuestan trabajo, no es fácil. Ser profetas, acompañantes, intercesores, mostrar con la vida el misterio de la cercanía de Dios a su Pueblo puede requerir dar la propia vida. Muchos sacerdotes, religiosas y religiosos — como nos ha dicho sor Regina de sus hermanas— fueron víctimas de agresiones y atentados donde perdieron la vida. En realidad, su existencia la ofrecieron por la causa del Evangelio y su cercanía a los hermanos y hermanas nos dejan un testimonio maravilloso que nos invita a proseguir su camino. Podemos recordar a san Daniel Comboni, que con sus hermanos misioneros realizó en esta tierra una gran labor evangelizadora. Él decía que el misionero debía estar dispuesto a todo por Cristo y por el Evangelio, y que se necesitaban almas audaces y generosas que supieran sufrir y morir por África.

Pues bien, yo quisiera agradecerles por lo que hacen en medio de tantas pruebas y fatigas. Gracias, en nombre de toda la Iglesia, por su entrega, su valentía, sus sacrificios y su paciencia. ¡Gracias! Les deseo, queridos hermanos y hermanas, que sean siempre pastores y testigos generosos, cuyas armas son sólo la oración y la caridad; pastores testigos, que se dejan sorprender dócilmente por la gracia de Dios y son instrumentos de salvación para los demás; pastores y profetas de cercanía que acompañan al pueblo, intercesores con los brazos alzados. Que la Virgen Santa los cuide. En este momento, pensemos en silencio en estos hermanos y hermanas nuestros que han dado la vida aquí, en el ministerio pastoral, y demos gracias al Señor porque ha estado cerca. Demos gracias al Señor por su cercanía martirial. Recemos en silencio.

Gracias por sus testimonios. Y si tienen un poquito de tiempo, recen por mí. Gracias.

[00169-ES.02] [Texto original: Italiano]

[B0104-XX.02]