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Enrico De Nicola, il più “anti-italiano” tra i Presidenti della Repubblica

Probabilmente non tutti lo sanno, ma il primo Presidente della Repubblica che l’Italia ha avuto nella sua storia aveva anticipato di qualche decennio il modus operandi per il quale un altro suo illustre successore (ovvero Sandro Pertini) è diventato mediaticamente più celebre: stiamo parlando di Enrico De Nicola. Il 12 maggio 1948 concludeva il suo brevissimo incarico da Capo dello Stato (appena 132 giorni) e, pur essendo uno dei Presidenti meno conosciuti della storia del nostro Paese, il ricordo più vivido che se ne ha – 75 anni esatti dopo la fine del suo mandato – è quello di un Presidente dal carattere bizzarro e bizzoso, aspro e anche severo; ma senza ombra di dubbio dall’alto valore etico morale e civile.

Da deputato a Capo dello Stato: l’ascesa al potere di Enrico De Nicola

Nato a Napoli il 9 novembre 1877, Enrico De Nicola diventa un insigne avvocato penalista e viene eletto deputato al Parlamento nelle file della sinistra costituzionale dal 1909 al 1924, quando non prestò il giuramento richiesto per essere ammesso alle funzioni e, quindi, non partecipò all’attività parlamentare (era diventato anche presidente della Camera), prendendo così le distanze da Mussolini e dal fascismo. Dopo il referendum vito dalla Repubblica nel 1946, bisogna eleggere il Capo dello Stato. I candidati alla presidenza sono tutti “revenants” (fantasmi, come li chiamava in dialetto piemontese Vittorio Emanuele III, memore dei loro trascorsi nell’Italia prefascista). La Democrazia Cristiana inizialmente appoggia Orlando. Il Partito Comunista, invece, sostiene il filosofo Benedetto Croce, già deputato del Regno. Ma alla fine è proprio il gioco dei veti incrociati a catapultare un giurista 69enne, napoletano e monarchico sul Colle più alto.

Il 28 giugno 1946, Enrico De Nicola viene quindi eletto Capo provvisorio dello Stato dall’Assemblea Costituente al primo scrutinio, con 397 voti su 501: il 73,7% dei suffragi. Contrari soltanto i repubblicani, il Partito d’Azione, la Concentrazione Democratica di Ferruccio Parri e l’Uomo Qualunque. Qualcuno giura che don Enrico non accetterà l’incarico. Del resto lui è più famoso più per le sue rinunce che per le sue investiture: quattro volte ha rifiutato la presidenza del Consiglio, una la nomina a senatore, una l’elezione a deputato, una la poltrona a sindaco di Napoli. Adora farsi pregare. Manlio Lupinacci lo deride sul Giornale d’Italia: “Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare“. Ai primi segnali della sua elezione, De Nicola è infatti subito fuggito da Roma rintanandosi nella sua villa di Torre del Greco. Saragat tenta di avvertirlo che sta per cominciare la votazione decisiva, ma trova il telefono staccato. Qualche ora dopo ci riprova Alcide De Gasperi, per comunicargli l’esito finale. E, dietro l’insistenza del capo del Governo, finalmente il neoeletto risponde: “M’inchino alla volontà popolare“. Neppure un cenno di ringraziamento ai deputati che lo avevano issato alla più alta carica dello Stato.

Il travagliatissimo insediamento al Quirinale

De Gasperi ci rimane male, ma continua la telefonata con una punta di ironia: “Auguri, presidente. Se lei è d’accordo, il 1° luglio alle ore 12 dovrebbe giurare fedeltà alla Repubblica…“. “Presidente provvisorio, prego“, lo tronca scontroso l’interlocutore. E il 1° luglio, giusto per non smentirsi, si fa attendere non poco. Fa un caldo torrido quel giorno a Roma. Davanti al palazzo di Montecitorio una folla di parlamentari, giornalisti e semplici curiosi aspetta con ansia il suo arrivo. Ma don Enrico non arriva. “Doveva esser qui a mezzogiorno ed è già la mezza. La Repubblica è già in ritardo“, sghignazzano i monarchici. La mancata puntualità è imbarazzante: un’ora e mezza. Solo alle ore 13.30 il corteo presidenziale piuttosto scarna sbuca finalmente dall’ultima curva e avanza lentamente verso la piazza. C’è una sola automobile nera, quella privata di De Nicola (una Fiat 1100) senza scorta: i sei poliziotti in motocicletta che l’hanno accompagnato da Napoli li ha licenziati lui personalmente alle porte di Roma. Al suo fianco, a bordo della vettura, rimangono solo il nipote e la sua solita valigia di cuoio nero: suo unico bagaglio, che pretende di portare da solo.

Dopo avere firmato l’incarico, De Nicola rifiuta anche di stare al Quirinale, ritenendola una sede adatta a papi e principi, preferendo di trasferirsi a Palazzo Giustiniani. Le sue tante rinunce hanno dato risalto alla sua umiltà: maniaco delle dimissioni e allergico al denaro e al potere, si dimostrerà il più “anti-italiano” dei presidenti. De Gasperi (che rischiò seriamente di essere fatto fuori dal governo da De Nicola stesso) tenta di convincerlo a firmare il decreto che gli attribuisce la “lista civile” e che gli avrebbe garantito uno stipendio pari a 12,5 milioni di lire all’anno. Ma assolutamente invano. Durante la sua breve carica, poi, De Nicola continua a indossare un suo vecchio cappotto rivoltato, oramai invecchiato dal tempo e, su insistenza degli imbarazzati collaboratori, decide di farlo rattoppare dal sarto che da tempo gli proponeva di rivoltare il colletto ormai consunto. Il camiciaio accetta con grande onore la riparazione richiesta, ma vuole effettuarla gratuitamente. La cosa non piace al modestissimo Presidente che, come risposta, non lo salutò per lungo tempo. E i regali ricevuti? Quelli venivano categoricamente rifiutati per darli ai più bisognosi.

Si dimette, ma la Costituente non ci sta

Scostante e umorale, arriva a dimettersi “per ragioni di salute” nel maggio del 1947, terrorizzato dalle possibili conseguenze della rottura fra De Gasperi e le sinistre dopo lo storico viaggio a Washington. La Costituente, non potendo respingere le sue dimissioni, lo rielegge il giorno dopo, con 405 voti a favore su 431 votanti e 556 aventi diritto (72,8%). Quattro mesi dopo l’Alcide va a fargli firmare il Trattato di pace tra l’Italia e le potenze alleate, approvato dalla Costituente il 31 luglio 1947. De Nicola non ne vuole sapere e in un eccesso d’ira, rosso in faccia, butta all’aria tutti documenti dalla sua scrivania, tra lo sgomento di funzionari e ministri presenti. Finalmente, il consulente storico del Ministero degli esteri, Mario Toscano, riesce a convincerlo che la sua firma non avrebbe avuto il valore giuridico della “ratifica”, bensì quello di mera “trasmissione” della stessa alla Costituente. Il capo dello Stato comunque, essendo molto superstizioso, vuole far trascorrere almeno la giornata di venerdì, prima di apporre la sua firma alla ratifica del Trattato di pace, il 4 settembre 1947.

Con l’entrata in vigore della Costituzione (da lui stessa firmata), Enrico De Nicola diventa il primo Presidente della Repubblica Italiana e rimane tale fino al 12 maggio 1948 quando, subito dopo le prime elezioni repubblicane italiane, decide di dimettersi cedendo il posto all’economista e statista liberale Luigi Einaudi. Due anni di De Nicola possono bastare. Tra i suoi ultimi impegni istituzionali si ricordano quello della carica di presidente del Senato della Repubblica nel 1952 e di presidente della Corte Costituzionale nel 1957, diventando così l’unica persona a ricoprire quattro delle cinque maggiori cariche italiane. Muore nella sua casa di Torre del Greco il 1° ottobre 1959, all’età di 81 anni. Con lui se ne va l’ultimo grande notabile dell’Italia liberale che, sopravvissuto politicamente alla fine della monarchia e di Casa Savoia, era stato il primo Capo provvisorio. Per una Repubblica appena nata e che ancora aspettava i propri ordinamenti democratici.


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