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Ava DuVernay: «Un tavolo tutto per noi»

Questo articolo è pubblicato sul numero 39 di Vanity Fair in edicola fino al 27 settembre 2022

Il «test DuVernay» consiste in qualche semplice domanda tipo: i neri in questa storia hanno vite autonome o esistono solo in funzione dei personaggi bianchi? Lo ha inventato nel 2016 la critica cinematografica del New York Times Manohla Dargis, per valutare, con criteri oggettivi, come sono rappresentate le persone nere nei film e nelle serie tv, e non è difficile capire perché il test sia stato intitolato ad Ava DuVernay: è stata la prima regista afroamericana a essere candidata, nel 2015, all’Oscar per il miglior film con Selma - La strada per la libertà. Il film ripercorreva le famose marce guidate da Martin Luther King nel 1965 da Selma a Montgomery per il diritto al voto dei neri in America. Ma anche i lavori precedenti e quelli successivi fanno parte di un percorso di denuncia delle discriminazioni strutturali degli afroamericani negli Stati Uniti: come l’incarcerazione di massa di XIII emendamento o il caso dei ragazzini vittime del razzismo della giustizia americana in When They See Us

Ava è a Venezia, dove è venuta a ritirare il DVF Award, il riconoscimento ideato dalla stilista Diane von Fürstenberg che premia le donne che si dedicano a migliorare le vite di altre donne. Dopo la nostra intervista, la sera stessa, abbraccerà l’amica Hillary Clintonprima di salire sul podio per fare un discorso sul potere femminile. Il carisma da politica non manca. «È importante che le donne celebrino altre donne, è fondamentale che ci mettiamo in luce le une con le altre: nessuno lo farà al posto nostro», dice.

Ava DuVernay ai DVF Award a Venezia.

Ava DuVernay ai DVF Award a Venezia.

ALFONSO CATALANO

Perché spesso manca la solidarietà femminile?
«Perché viviamo in un sistema che non è strutturato per far sì che le donne si incoraggino a vicenda e solidarizzino tra di loro. La nostra società è basata sulla competizione e sulla gerarchia, e penso che l’unico modo che abbiamo per uscirne vincenti è unirci, darci la mano e buttare giù questo modo di pensare. Sembra così semplice ma nessuno lo insegna alle ragazze».

Lei come lo ha imparato?
«Sono cresciuta in una famiglia di donne: nonna e mamma al vertice e poi io con due sorelle e due fratelli. Quando ti formi in un matriarcato certi valori li impari in fretta. Mia madre è sempre stata un modello per me».

Racconti.
«Passati i 30 anni ha mollato tutto e ha ricominciato da capo: faceva la dirigente amministrativa in un ospedale e ha lasciato il lavoro per fare ciò che aveva sempre voluto fare, la maestra d’asilo. È stata coraggiosa».

Anche lei ha cambiato vita a quell’età: prima lavorava nelle pubbliche relazioni per il cinema, ha scelto la macchina da presa a 32 anni.
«Facevo l’addetta stampa per gli studios cinematografici e amavo il mio lavoro. Ero sempre sui set, guardavo i registi al lavoro e spesso mi sorprendevo a pensare: ma perché fa quella inquadratura Io la farei così. Insomma, a un certo punto mi sono detta che dovevo provare, così ho preso i risparmi che avevo messo da parte per comprarmi la casa e li ho spesi per finanziare il mio primo film».

Quanti soldi erano?
«Cinquantamila dollari. In assoluto pochi, per me moltissimi. Ho realizzato il primo film da indipendente, c’è stata un’ottima accoglienza, poi con il secondo lavoro, Middle of Nowhere, ho vinto il premio alla regia al Sundance nel 2012. Invece di comprarmi una casa, mi sono comprata un film: così è cominciato tutto. Ho rischiato perché sapevo che nessuno mi avrebbe mai dato i soldi per cominciare».

Non aveva paura di fallire?
«Tantissima. Ma avevo la mia agenzia di pubbliche relazioni a cui tornare. C’erano i contratti, i clienti, nessuno peraltro sapeva del film».

Ha fatto il film di nascosto?
«In pratica sì. Mi ricordo quando uscì una delle prime recensioni, mi chiamò una cliente: ma sai che c’è una regista che si chiama esattamente come te? E io: ma è incredibile, devo andare a controllare…».

L’esperienza da publicist l’ha avvantaggiata nel mondo del cinema?
«Non mi ha aperto nessuna porta ma mi ha aiutata a navigare meglio nell’industria indipendente: conoscevo già i meccanismi, non ne ero spaventata a differenza di tanti giovani registi, così ho potuto concentrarmi solo sul film».