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Chiara Maci: «I sensi di colpa con cui ho fatto pace»

Nel momento in cui ci sentiamo Chiara Maci ha già messo tre pentole sul fuoco, mentre la sera prima, a mezzanotte, ha pensato di portarsi avanti preparando un arrosto con la zucca e il ragù per il giorno dopo. «Sono iperattiva, fermarsi per me è deleterio. Preferisco macinare, fare», racconta Maci al telefono dal suo appartamento milanese in una pausa della sua fittissima agenda che la vede presenziare a mille eventi e a destreggiarsi tra mille impegni facendoci sorgere il dubbio che sia bionica. In tutto questo, Chiara Maci ha trovato anche il tempo di dare alle stampe il suo ultimo libro: si intitola Le mie ricette da fiaba. Lupi mangiatorte, principesse intraprendenti e piatti incantati, è pubblicato da Mondadori e unisce due delle passioni più grandi di Chiara, ossia le fiabe e la cucina. Le fiabe raccolte all'interno del libro sono quelle che conosciamo tutti - da Cappuccetto Rosso a Pollicino -, ma con una rivisitazione tutta nuova: Maci ha, infatti, pensato di correggere alcuni dettagli della trama proponendo delle storie a lieto fine che culminano con la realizzazione di un piatto del quale illustra minuziosamente la ricetta, creando una combo straordinaria per i piccoli che vogliono essere intrattenuti e per i grandi che non vedono l'ora di destreggiarsi ai fornelli per preparare la torta che Biancaneve inforna dopo aver scacciato la Strega cattiva e la mozzarella in carrozza che Cenerentola offre al principe dopo il gran ballo.

Insomma, lei non si annoia mai.
«Riesco a riposarmi facendo cose che mi piacciono senza, tuttavia, lo stress di esagerare».

La noia come la vede?
«Ho insegnato ai bambini di avere il tempo di annoiarsi, visto che sono sempre molto stimolati: ogni tanto è necessario fermarsi. La noia fa bene perché permette di concentrarsi su altro. Quando mi sono licenziata a 25 anni, ho passato i primi 2 mesi a non fare potenzialmente niente: è stato il momento in cui ho pensato di aprire un blog, ho iniziato a studiare cucina seriamente e ho iniziato di notte a fare il cioccolato. Non stavo mai ferma, ma mi concentravo su quello che volevo».

Nel libro definisce i giorni dell'infanzia «i giorni in cui il tempo c'era». Oggi non ce n'è più?
«Mentre scrivevo l'introduzione ho pensato al tempo che i miei genitori mi dedicavano e che per me valeva tanto perché sapevo quanto fossero impegnati: fermarsi a leggermi le favole era un momento solo nostro che mi ha segnato. È per questo che oggi noi genitori dovremmo fare lo sforzo gigantesco di prendere il telefono, allontanarlo e dire ai nostri figli: "Ora sono al 100% per te».

Lei ci riesce?
«Ci provo. Me lo hanno chiesto i bambini: a loro il telefono non piace». 

Chiara Maci «I sensi di colpa con cui ho fatto pace»

Tra l'altro il libro lo ha dedicato proprio a loro: a Bianca e Andrea.
«Li vedo come gli adulti di domani, come coloro che scriveranno presto la nostra storia. Penso che sia prezioso dare ai figli una morale che possa insegnare loro qualcosa di giusto, ed è per questo che non amo il bisogno di incasellare che avevano le favole di quando ero bambina io: la principessa con gli occhi azzurri, il principe che arriva sempre in quel modo. Per non parlare di alcune qualità, come la furbizia, che sono sempre state considerate da cattivi quando non è vero».

Tipo nel libro, quando ha reso la nonna di Cappuccetto Rosso furba.
«A un certo punto dice al lupo che, se gli insegnerà a cucinare, potrà prepararsi il cibo da solo ogni volta che avrà fame, senza contare che la torta sarebbe comunque stata più buona di lei. Penso che sia prezioso rivolgersi ai bambini attraverso un linguaggio semplice e divertente, libero dagli stereotipi».

Ma dopo che legge le favole, i suoi bambini le chiedono anche di assaggiare le ricette che ha inserito nel libro?
«Bianca, che ha 8 anni, è nella fase in cui adora mettersi ai fornelli. Per Andrea, che ne ha 4, tutto ciò che è confezionato è suo».

È una fan dell'happy ending?
«Sono fan di quello che ti rende felice. Non sono per gli happy ending oggettivi, ma soggettivi. Fare, nel rispetto degli altri, quello che ti fa stare bene è molto difficile: io l'ho capito da grande, e ogni giorno mi impegno per rispettare il mio sogno. Tutto è legato alle sensazioni, ai sapori: in un piatto il 60% lo fa il ricordo e l'odore che hai sentito».

È una risposta molto romantica.
«Sono una sensibilona e una romanticona. Un cuore di panna».

A questo proposito, che odore ha avuto la sua infanzia?
«Delle 7 moka che mia madre metteva sul fuoco e della frittura di melanzane che friggeva all'alba per fare le parmigiane». 

Cosa voleva diventare da grande?
«Volevo diventare Oriana Fallaci: provavo per lei un amore disumano, totalizzante».

Quando è iniziata questa fascinazione?
«Da piccolissima, quando ho iniziato a leggere i suoi libri: grazie a lei ho imparato l'importanza del punto, le frasi incisive. Mio padre, però, non voleva che facessi la giornalista, così la scrittura l'ho tenuta come grande passione. Quando è morta Oriana è stato un dolore enorme, ero convinta che l'avrei conosciuta prima o poi».

Che bambina era quella che sognava di diventare Oriana Fallaci?
«Una bambina indipendente. Mio padre lavorava, mia madre era a casa, e io trovavo in Oriana quello che volevo essere».

In cosa era indipendente?
«Nel mio modo di essere. Avevo le mie idee e le rispettavo fortemente, non mi facevo condizionare. Ricordo, per esempio, che a un certo punto avevo dei capelli cortissimi che attiravano l'attenzione e che ero riuscita a essere indipendente dal giudizio di chi mi circondava. È una cosa che ho provato anche quando ho portato avanti da sola la gravidanza di Bianca. Mio padre mi disse che era come se quella cosa l'avessi sempre saputa, visto che da piccola dicevo che avrei avuto una figlia senza fare riferimento a qualcuno al mio fianco. Ho tenuto fede a quella indipendenza, e cerco di trasmetterla ogni giorno a Bianca».