Questo articolo sull'estate 2023 è pubblicato sul numero 40 di Vanity Fair in edicola fino al 3 ottobre 2023
In un articolo del 1918 della rivista di moda per bambini Earnshaw’s Infants’ department, si leggeva che «la regola generalmente accettata è il rosa per i maschi e il blu per le femmine. Il motivo è che il rosa, essendo un colore più deciso e più forte, è più adatto a un bambino, mentre il blu, più delicato, è più bello per la bambina».
Eppure, negli anni seguenti, il valore dei colori rosa e azzurro venne ribaltato, e oggi sembra normale che rosa sia «da femmine» e azzurro «da maschi». Dal gender reveal ai fiocchi nascita, dall’abbigliamento all’arredamento delle stanze, ci si sente quasi in dovere di usare i colori come strumenti narrativi vincolanti.
Esiste una parte della pedagogia che si occupa proprio di riflettere su quei condizionamenti di genere che si trasmettono attraverso i modelli educativi, e che si traducono in parole, pratiche, consuetudini che non si limitano a dare indicazioni sulla vita sociale ma limitano l’espressione di sé. Ne parla per esempio Alessia Dulbecco in Si è sempre fatto così! (appena uscito per Edizioni Tlon), descrivendo una lunga serie di condizionamenti che non riguardano solo il genere femminile. Da pedagogista, impegnata da anni in incontri e formazioni con genitori e nelle scuole, ha infatti illustrato come queste convenzioni sociali tocchino tutte le varie fasi dello sviluppo, rendendo la crescita della persona un percorso pieno di ostacoli, in cui deve continuamente dimostrare di saper stare al proprio posto e rispettare ciò che è previsto dal proprio genere.
Sembra una faccenda ormai superata, eppure un paio di giorni fa nostro figlio di nove anni, tornato da scuola, ci ha detto che i suoi compagni maschi lo avevano preso in giro perché, dopo aver visto un ciondolo di My Little Pony attaccato allo zaino di una compagna, le aveva detto che aveva visto il cartone animato. Un cartone animato «da femmine», lo avevano canzonato loro in risposta, che «i maschi non devono guardare». Roma, anno 2023.
La pedagogia di genere ci spiega che tutto questo non è naturale ma è una costruzione culturale che viene appresa fin da piccoli. Vale per i colori – che fino a un secolo fa erano appunto attribuiti al genere opposto – tanto quanto per una serie infinita di altri comportamenti, tratti, desideri.
Questo conferma l’idea che, purtroppo, anche chi è molto piccolo oggi si trova a doversi difendere dalle accuse di essere troppo femminile (se maschio) o troppo maschile (se femmina). Chi esce dai dettami del ruolo che la società gli ha assegnato, dunque, compie un vero e proprio tradimento.
E allora, forse, anche chi non ha grandi difficoltà a stare nel proprio genere, e chi ha desideri che sono piuttosto vicini a quelli «previsti», dovrebbe comunque esercitarsi a mettersi nei panni altrui e a tradire le convenzioni affinché altri e altre possano fare lo stesso. A mettere in luce l’arbitrarietà degli stereotipi, così da consentire a chi ne subisce davvero l’urto di sfilarsi e manifestare liberamente, senza incorrere nelle sentenze altrui, ciò che realmente è.
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